I tedeschi del Caucaso, una storia di speranze e deportazioni

Il mio viaggio in Russia, stranamente, non inizia in Russia, ma a Vilnius.

Arrivo nella capitale lituana di prima mattina e la guesthouse in cui mi reco sembra deserta. Aspetto un po’ di fronte alla reception, ma non succede nulla. Faccio risuonare un paio di volte il campanello sul bancone dell’accoglienza: non si presenta nessuno. Allora provo a chiamare il numero scritto sul foglio della mia prenotazione, ma il telefono squilla a vuoto di fronte a me.

Proprio quando, rassegnata, mi siedo su una delle sedie della hall, vedo arrivare un alto uomo di mezza età dai capelli brizzolati e i baffi nerissimi. Indossa una canottiera bianca, dei pantaloncini blu stropicciati e camminando fa strusciare pigramente le ciabatte di gomma. Non sembra affatto un receptionist, però è l’unica persona che vedo dopo venti minuti, quindi chiedo a lui. Il signore non parla inglese, ma una lingua che suona come russo, mi fa cenno di aspettare e sparisce nel corridoio chiamando a grande voce qualcuno.

Quando torna mi dice qualcosa che non capisco e si va a sedere in fondo alla hall, al tavolo della cucina su cui sono poggiate in maniera disordinata alcune tazze colorate, sporche di caffè. Dopo un paio di minuti compare una giovane donna mora con i capelli arruffati che camminando affannata mi saluta senza troppe cerimonie e si posiziona alla reception. Indossa solo mutande colorate e una t-shirt bianca. Ha l’aria parecchio assonnata e a quanto pare io sono la causa del suo risveglio affrettato. È la prima volta che faccio un check in con una receptionist in mutande appena scesa dal letto, ma capirò presto che la guesthouse in cui alloggerò per i prossimi giorni è più di un semplice posto in cui dormire; è in realtà una casa per lavoratori di origine slava.

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Nell’ostello infatti regna un’atmosfera da grande famiglia, in cui l’unico ospite con intenti turistici sono io. Gli altri, nella guesthouse, ci abitano e sono a Vilnius per lavorare, non in visita di piacere.

Me ne accorgo la sera stessa mentre me ne sto seduta su una delle sedie nella sala comune a consultare la guida. Nella cucina alcune persone sono intente a cucinare qualcosa, altre a bere gelide bottiglie di birra locale. Un ragazzo si ferma a leggere un foglio con scritte in cirillico poggiato sul tavolo accanto a me. Sorride, divertito da ciò che ha appena letto, e mi rivolge la parola parlando una lingua che non somiglia affatto al lituano. Gli faccio notare che non capisco quello che dice, allora lui comincia a parlarmi in un inglese un po’ sbiadito.

Sei russo?” chiedo

Tedesco, ma russo” risponde lui. Lo guardo senza capire. “Ah, lascia stare – mi consiglia – è una vecchia storia sovietica” e muove sbrigativamente la mano come a scacciare via una mosca.

Non l’avesse mai detto, a queste parole la mia curiosità si accende come un fuoco e non lo mollo. Passiamo così la serata davanti a svariate tazze di un acquoso caffè fumante pieno di fondi, (“noi non beviamo caffè, lo mangiamo” sono soliti dire i lituani) e chiacchieriamo fino a tarda notte con la granulosa sensazione di sabbia tra i denti.

Riesci a dormire con tutti questi caffè che bevi la sera?” gli chiedo

Sì, il mio lavoro è sufficientemente stancante: faccio il meccanico” mi risponde mentre si arrotola una sigaretta Wiston “Ti dà fastidio se fumo?” Faccio cenno di no. “Visto che non riesco a smettere, ho deciso di rollarmi il tabacco. Sai, così fumi di meno: non hai la sigaretta già pronta…” spiega sorridendomi.

Max (il nome è di mia invenzione) è un ragazzo incline al sorriso, di qualche anno più grande di me, alto e con gli occhi dal taglio vagamente orientale. Ha l’abitudine di dare dei colpetti nervosi con le dita al cappello grigio che non si toglie mai dalla testa, in tre giorni glie l’ho sempre visto indossare. Viene da Krasnodar, nel Caucaso russo, da genitori di origine tedesca, ma è cresciuto più a oriente, vicino al Daghestan. Mi racconta la contorta storia dei tedeschi di Russia, che è anche la storia della sua famiglia.

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La presenza tedesca in Russia risale al XVIII secolo, sotto Caterina II la Grande. In quel periodo l’impero zarista, allettato da uno sbocco sul mar Nero, intraprese una guerra contro gli ottomani e la vinse, riuscendo ad espandere il proprio dominio sul Caucaso settentrionale.

La zarina, figlia di un principe tedesco e amante dell’arte (la sua collezione di quadri costituisce oggi una parte considerevole del patrimonio dell’Ermitage), avviò un programma di insediamento straniero in Russia con l’obiettivo di promuovere l’incremento demografico e l’agricoltura nelle regioni fertili. Offrì quindi a tempo indeterminato i terreni abbandonati e garantì alcuni privilegi ai contadini stranieri che si sarebbero trasferiti nelle aree da lei indicate. Ai coloni sarebbe stata concessa libertà religiosa, esenzione dalle tasse e aiuti economici.

Il manifesto di Caterina II trovò l’interesse di molti tedeschi che, provati dalla guerra dei sette anni, furono attratti dalle promesse della zarina e accolsero l’invito di trasferirsi in Russia. I tedeschi del Volga furono poi incoraggiati a insediarsi la regione del Kuban nel Caucaso con lo scopo di popolare con un’etnia “amica” un territorio da poco conquistato, abitato da popoli ostili a maggioranza musulmana.

Nel 1941, con l’occupazione nazista della Russia, i tedeschi del Caucaso, furono sospettati di collaborazionismo e spionaggio a favore del governo hitleriano e deportati in Siberia e Kazakistan. Li privarono dei diritti civili e confiscarono loro tutti gli averi. Poi furono caricati in vagoni destinati ai campi di lavoro a oriente”.

Nel 1972 i tedeschi deportati furono riabilitati e fu permesso loro di tornare negli insediamenti di origine. “Chi tornò però trovò le proprie case abitate dai russi. Dell’identità tedesca dei villaggi non rimaneva nulla, tutto era stato stravolto e russificato. Di cose terribili i sovietici ne hanno fatte tante, ma almeno nel Caucaso hanno portato la civiltà”.

In che senso?” gli chiedo.

Beh sì, insomma, lì prima vivevano come selvaggi: solo montagne e pecore. L’Unione Sovietica ha portato ordine, istruzione, cultura. Poi si è disgregata e sono tornati ad essere selvaggi. Adesso nel Daghestan sono invasati con la religione, pensano solo all’islam, sembrano tutti impazziti!” mi spiega scuotendo la testa. Aspira avidamente una boccata di fumo e fissa pensoso per qualche istante la parete bianca.

E tu? Sei musulmano o cristiano?” chiedo.

Mi guarda con quei suoi occhi velati di una tristezza lontana e gli scappa un sorriso. “Io?” beve un sorso di caffè, poggia la tazza e scuote di nuovo la testa “Io non sono niente. Sono ateo, la mia religione è la vita”.

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La questione è probabilmente più complessa di come la liquida Max e la lotta tra musulmani del Caucaso e Russia non è affatto cosa nuova. Già nel 1816 il generale Aleksey Yermelov, nel sottomettere con brutalità la popolazione locale scatenò la rivolta delle tribù daghestane e cecene. Una rivolta che durò ben trent’anni. I russi ebbero la meglio e alla sconfitta seguì una mirata pulizia etnica.

Nel XX secolo anche ceceni, balcari, caraciai, ingusci e calmucchi furono, insieme ai tedeschi di Russia e tanti altri, vittime delle deportazioni staliniane: Stalin fece trasferire da un lato all’altro del paese tutte le etnie che sospettava di tradimento. “I padri bolscevichi crearono le nazioni. Stalin le deportò” fa notare a riguardo la scrittrice russa Anya Vom Bremzen.

Dopo l’esilio siberiano fu concesso anche a loro di tornare, ma senza poter ottenere alcun risarcimento né esercitare diritti sulle vecchie proprietà. Trovarono le tombe dei propri antenati divelte, le pietre erano state utilizzate come materiale per le costruzioni. Se i tedeschi potevano pur sempre adoperarsi e sperare in un rimpatrio in Germania, sebbene con molte difficoltà, questa gente invece non aveva altre scappatoie: il Caucaso era la loro terra. Odio, senso di ingiustizia e rancore non si assopirono mai e, con la dissoluzione dell’Impero Sovietico, le minoranze etniche ne approfittarono per riprendere in mano le sorti del proprio destino, sfruttando la debolezza del potere russo per avanzare i primi passi verso l’indipendenza. La glasnost‘ di Gorbaciov fu la miccia e quell’ubriacatura di libertà comparsa con la caduta dell’Urss per loro significò distacco.

Verso mezzanotte un ragazzo si unisce al nostro tavolo. È giovane, non avrà più di 25 anni, biondo e grassottello. Si chiama Nikolaj e in Lituana fa il muratore. Con Max si conoscono: anche lui abita nella guesthouse.

Hey shapka mi offri un po’ del tuo tabacco?” chiede in russo il nuovo arrivato.

Qua mi chiamano ‘shapka‘, che significa ‘cappello’, perché non me lo tolgo mai” mi spiega Max con un sorriso malizioso mentre porge le cartine all’amico.

Anche tu sei russo?” chiedo

No, sono ucraino – mi risponde quasi offeso – Fucking Russia!” bisbiglia con la sigaretta in bocca mentre se la accende “I russi fanno solo casini, mettono il naso dappertutto” conclude Nikolaj che, mi sembra di capire, non provi una grande simpatia per la Russia. Per lui è una potenza ingombrante e minacciosa. Anche Max è d’accordo e mi confida: “Io in Russia non ci torno più. Mai più. Neanche nelle città civilizzate”

Civilizzate?” chiedo.

Sì, San Pietroburgo e Mosca. Il resto è giungla. La Russia è una nazione ricca. Legname, metalli, petrolio, gas, ma tutta questa ricchezza a chi appartiene veramente? – fa una pausa e mi guarda dritto negli occhi – appartiene solo a un pugno di persone, all’1% della popolazione. È un paese spietato in cui vige la legge del più forte. La Russia di oggi è white Africa, Africa bianca” dice serio.

La presentazione non è delle più rassicuranti visto che di lì a qualche giorno varcherò il confine russo. Quando comunico loro il viaggio che intendo fare, Max si mostra non poco preoccupato per me: viaggiare sola da un capo all’altro della Russia in treno, senza conoscere nessuno né parlare la lingua del posto gli sembra una pazzia. Mi raccomanda di stare attenta; scrive su un foglio di carta il suo numero di telefono e lo fa scivolare davanti alla mia tazza. “Se hai bisogno, chiamami”.

Me ne vado a dormire con un senso di inquietudine pensando alle parole di Max e Nikolaj. A sentire loro sembra che io stia per intraprendere un viaggio pericoloso ai limiti dell’incoscienza. Il clima nella guesthouse poi non fa che acuire il mio senso di disagio. Gli altri ospiti parlano solo russo, sono gentili, ma sfuggenti al tempo stesso, nessuno parla con piacere di sé e sembra non gradiscano le domande. Pare che stiano fuggendo da qualcosa. Lo stesso Max, quando gli chiedo perché è andato via dal Caucaso, si mostra riservato e tenta goffamente di eludere la domanda.

Ma se si vuole conoscere veramente qualcosa bisogna sperimentarla. Il modo migliore per cercare di capire la misteriosa Russia dunque era andarci. Così, attraversando i paesi baltici, mi reco a San Pietroburgo per intraprendere la mia tanto agognata Transiberiana.

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© 2017, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com

2 pensieri su “I tedeschi del Caucaso, una storia di speranze e deportazioni

  1. Grazie mille! Sono molto felice che l’articolo ti sia piaciuto! 🙂 Ti auguro di poterci andare presto: si tratta di posti, interessanti, a tratti magici, che traboccano di storie.
    Ognuno di noi porta sempre con sé un bagaglio di pensieri, istinti ed emozioni che finiscono col fondersi nei luoghi che visitiamo. E gli incontri e le esperienze che si costruiscono durante il corso di un viaggio sono, in fin dei conti, i piccoli tasselli della nostra personale ricchezza interiore che va accumulandosi. Una ricchezza gelosamente custodita in ricordi dai contorni sbiaditi, ma che non andrà mai dissipata.

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