Il sapore amaro delle palme da zucchero

Di Phnom Penh non ho un ricordo sereno.

La visita alla prigione di Tuol Sleng e al campo di sterminio di Cheoung Ek hanno offuscato qualsiasi altra bellezza di questa città dai palazzi decadenti. In tutta la Cambogia si possono trovare le tracce del regime dei Khmer rossi di Pol Pot, ma nella capitale i ricordi di quegli anni sono preponderanti.

Il governo dei Khmer rossi inizia il 17 aprile 1975 con la presa di Phnom Penh. Gli uomini di Saloth Sar, il vero nome di Pol Pot, riempono le strade della città inaugurando quello che si rivelerà un regime senza mezze misure. Pol Pot, che aveva studiato a Parigi dove conobbe i circoli marxisti dell’epoca, credeva nella lotta di classe. Nella sua mente la società era divisa in due nette categorie: i contadini, che lui chiamava il “popolo semplice” e che considerava degli eroi e tutti gli altri, gli abitanti delle città, per lui rappresentanti di una società corrotta. Ma le persone sulle quali si accanì di più furono gli intellettuali. Lo studio, i libri e la cultura in generale erano il male supremo: il primo passo verso il processo di imborghesimento e decadenza delle società e la disuguaglianza.

Solo i contadini erano visti come persone pure e semplici, i veri lavoratori che producevano cibo e quindi la base sulla quale rifondare la società. Bisognava ricominciare da capo: radere al suolo gli elementi di disturbo, ogni lascito della cultura e della tradizione e ricostruire su basi nuove il tessuto sociale. Questo processo fu duro, Pol Pot era molto razionale e drastico e non conosceva sfumature. Era solito ripetere: “Meglio uccidere un innocente per errore che risparmiare un nemico per errore”. Le prime vittime furono gli intellettuali, termine molto generico nel quale faceva rientrare tutti i professionisti, coloro che conoscevano le lingue straniere, chi sapeva leggere, chi aveva studiato all’estero, i laureati, ma anche solo di portasse gli occhiali. Furono eliminati senza remore.

Preso il potere, i Khmer rossi vietarono la religione, il commercio e l’istruzione e costrinsero intere famiglie a lasciare le città. In tre giorni tutti i centri abitati furono svuotati e ogni persona spedita ai lavori forzati in quelle che venivano eufemisticamente chiamate “fattorie collettive”. Si trattava di comuni dove la gente veniva fatta lavorare nei campi dodici ore al giorno con l’obiettivo di raggiungere l’autarchia e triplicare la produzione di riso. Molti morirono di stenti, altri per le violenze subite. Nell’arco di 48 ore vennero chiusi uffici, luoghi di culto e di divertimento. I templi furono adibiti a magazzini per stipare il riso, mentre le scuole furono trasformate in prigioni.

Di queste la più famosa è quella di Tuol Sleng, ex liceo trasformato in centro di detenzione e luogo di torture di sedicenti spie. Visto dal cortile interno sembra un bel posto con le palme da cocco e gli odorosi alberi di frangipani che crescono sull’erba baciata dal sole.

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Anche le pareti delle stanze color crema e il pavimento a scacchi bianco e arancione contribuiscono a dare l’idea di un posto tranquillo. Tuol Sleng fu invece un inferno. Il luogo di tortura dove molti prigionieri trovarono la morte.

Al secondo piano, improvvisate celle di legno e mattoni furono tirate su in poco tempo per sopperire alla mancanza di spazio dei detenuti che arrivavano con grande frequenza. Qua venivano rinchiusi in attesa di essere interrogati con metodi brutali. In un’altra ala, al piano terra invece ci sono dei pannelli sui quali sono disposte le foto dei prigionieri passati di qui. Sguardi di migliaia di persone che guardano dal passato i visitatori. Facce impaurite, facce stanche, ma anche facce fiere e dagli occhi ancora vispi. Sono i fantasmi di questo posto.

Chi non moriva per le torture nella sezione S21, come veniva chiamata Tuol Sleng, trovava la morte nei campi di sterminio di Cheoung Ek, dove veniva giustiziato chi aveva confessato di aver commesso crimini contro lo stato. All’entrata si erge uno stupa commemorativo all’interno del quale sono conservati in un’alta teca di vetro i teschi catalogati delle persone ritrovate nelle fosse comuni del campo. La Cambogia è tristemente disseminata di teschi, spesso unico ricordo di ciò che rimane dei tre milioni di cambogiani uccisi sotto il regime di Pol Pot.

Il luogo era già un cimitero per la comunità cinese locale e qualche resto delle vecchie tombe in pietra ancora fa capolino tra la vegetazione. Cheoung Ek nella periferia di Phnom Penh è solo uno dei 300 campi di sterminio trovati in Cambogia dopo la caduta del regime dei Khmer rossi. Fu il luogo di morte dei detenuti di Phnom Penh.

Dopo aver subito prolungate torture col fine di far estorcere loro una qualche confessione, venivano bendati e caricati su camion diretti nel vecchio cimitero cinese, che era la loro ultima tappa. Veniva detto loro che li trasferivano in una nuova casa, invece una volta raggiunto il campo venivano uccisi nei modi più rudimentali. DSC_0724pAsce, martelli, vanghe, bastoni, ogni attrezzo potenzialmente mortale andava bene, anche gli steli taglienti della palma da zucchero, che venivano utilizzati per sgozzare i prigionieri.

Questi metodi primitivi e brutali erano figli della fredda logica del risparmio. Non venivano mai utilizzati i proiettili per uccidere i prigionieri: costavano troppo per poterli sprecare sui civili. Le armi, provenienti per lo più dalla Cina, venivano pagate esportando riso e le pietre preziose estratte dalle miniere attorno a Pailin. E poco importava se la gente moriva di fame, cibo e gemme servivano per acquistare le munizioni. Anche i cadaveri degli intellettuali non andarono sprecati: furono utili per concimare i campi.

Le esecuzioni si svolgevano dopo il tramonto per approfittare del buio. Le notti si riempivano della musica propagandistica sparata dagli altoparlanti per coprire le urla dei condannati che venivano buttati nelle fosse comuni. Spesso non morivano subito, allora gli aguzzini gettavano sui corpi agonizzanti manciate di polvere di DDT per terminare l’opera. Le sostanze chimiche servivano anche a coprire il tanfo di morte che aleggiava nell’aria notturna.

Oggi alcune di queste fosse sono recintate con canne di bambù alle quali i turisti legano dei braccialetti in ricordo delle vittime. Prendo il mio, il braccialetto comprato qualche giorno prima dalla bimba lungo i binari del bamboo train, e lo lego insieme agli altri.

Sulla strada di ritorno vedo all’orizzonte gruppi di palme da zucchero che si stagliano nel cielo limpido con le loro chiome irsute. Sono belle ed eleganti, ma adesso la loro immagine ha un altro sapore: mi ricordano i Khmer rossi che ne usavano gli steli per tagliare le gole dei prigionieri e non riesco a non pensare che se sono cresciute così alte è anche grazie ai cadaveri che le hanno concimate.

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