Sei giorni di treno, il mio viaggio da Vladivostok a Ekaterinburg
Per il mio interminabile viaggio verso ovest mi tocca il posto 6 sul vagone 0 della peggiore delle platzkart.
Una sola presa funzionante, che tra l’altro si trova sul letto sotto al mio, cosicché chiunque volesse caricare un qualche dispositivo elettronico lo deve fare sulla testa del povero signore che dorme lì; rubinetto dell’acqua potabile vuoto: bisognerà bere quella bollente del samovar, il che non sarebbe poi così fastidioso se non fosse che l’aria condizionata è guasta e nel vagone fa un caldo micidiale.
La provodnitsa del turno di notte è una gnappetta cicciottella, di quelle che come dicono a Roma fai prima a saltarla che a girarle intorno, dai modi bruschi. L’altra, invece, è una magrissima signora gentile dai capelli rosso fuoco. Insieme sembrano Stanlio e Onlio, ma almeno i compagni di viaggio sono interessanti. Sotto di me ho una coppia di anziani signori. Lui, Vova, baffi neri e occhi grigi appesantiti dalla vecchiaia, ha enormi dita tonde ed è ricoperto di tatuaggi. Lei, Valya, capelli tagliati corti e viso solcato da lievi rughe, è una tipetta allegra e dalla parlantina nervosa. Sono diretti a Mosca, parlano solo russo e praticamente mi adottano.
Il treno parte e la signora tira fuori tovaglia, tazze di metallo e recipienti di plastica ripieni di tutto il cibo immaginabile. Mi offrono un po’ della loro cena: Valya infila nella mia zuppa liofilizzata pezzi di prosciutto affumicato e, sempre senza chiedermi nulla, mi sbuccia uova sode e mi porge il pane. Penso di aver risvegliato i suoi istinti materni, vuole nutrirmi a tutti i costi. Forse le faccio pena con i miei scarni panini vegetariani e le zuppe coreane del discount.
Mi raccontano tante cose (chissà cosa) e mi chiamano “Kristin”, alla russa. Chiedo loro, nel mio strampalato russo, di dove sono: vengono da un posto che non è una città, ma uno scioglilingua, io però faccio finta di aver capito e non ho scelta perché continueranno a parlarmi come se davvero capissi quello che dicono, sommergendomi di domande cui si aspettano che io risponda.
Il giorno seguente il caldo non dà tregua e nel vagone la gente si sventola, grondante di sudore, con tutto ciò che gli capita per le mani. Per sopravvivere al caldo, l’uzbeko del posto 12 ha cominciato ad aprire tutti i finestrini del vagone, compreso quello che dà sul mio letto. Ci ha appoggiato una bottiglia di plastica piena di kvas (una bevanda russa ricavata dal pane nero fermentato) per assicurarsi che non si chiuda ed ha deciso che deve rimanere lì. Così mi tocca dormire con la bottiglia al lato del cuscino.
L’idea del finestrino aperto è buona per il giorno, ma non per la notte. Al calar del buio la fredda aria delle notti siberiane entra attraverso la finestra come una lama tagliente e mi sferza il volto senza pietà. Mi raggomitolo il più possibile nella coperta di cotone, ma non mi riesce di prendere sonno così mi alzo all’alba quando tutto il vagone ancora dorme. Mi preparo il tè e lo bevo guardando il paesaggio in movimento. Fuori piove. La fitta foresta di betulle filiformi è ricoperta da una rosea bruma mattutina attraverso la quale il sole luccica in una danza in cui insegue il treno, comparendo e scomparendo tra i tronchi bianchi degli alberi.
Costeggiamo a lungo un ampio fiume limaccioso sul quale aleggia una leggiadra nebbia che come un lungo serpente nebuloso ne cela le sponde. Dopo qualche ora il panorama cambia e il treno si fa strada tra scure vallate ancora avvolte dalla nebbia e praterie ricoperte di alti fiori di un rosa acceso.
La pioggia continua a picchiettare sui vetri disturbata solo dal passaggio nel corridoio di una provodnitsa in carne che a malapena sta dentro la camicia tesissima dalla quale escono rivoli di ciccia. Ad annunciarla è l’allegra musica che esce dal carrello di snack che spinge. “Pirojki, kartochki…” propone a voce alta attraversando il vagone. L’uzbeko del posto 12 le fa una battuta, lei sta al gioco e gli dà una manata scherzosa. Tutti ridono, deve aver detto qualcosa di divertente.
Una delle cose di cui mi dispiaccio, penso guardandoli mentre ridono, è di non parlare russo. Se ne fossi stata capace avrei chiacchierato con i miei compagni di viaggio, con le provodnitse. Chissà quante storie mi sono persa, quanti aneddoti e opinioni su questo o su quell’argomento. Perché tanto loro, i russi, hanno sempre qualcosa da dire: sono un popolo di gran chiacchieroni. Mi riesce difficile immaginarli come li descrive Kapuscinsky ai tempi dell’Urss. Il reporter polacco (anche lui reduce di viaggi in Transiberiana) scrive di loro che rimanevano silenziosi, diffidenti, evitavano di parlare e speravano che nessuno facesse domande.
Era un altro periodo storico, plasmato dal sospetto verso l’altro, dalla paura di pronunciare una parola di troppo, di sembrare curiosi. Tutte caratteristiche pericolosissime all’epoca.
“I fondamenti dell’impero sovietico sono sempre stati il regime di terrore e la paura. Solo la perestrojka e la glasnost’ introducono un cambiamento radicale. La gente comincia ad esprimere pubblicamente le sue opinioni ad avere idee proprie, a criticare e a chiedere. La cosa diventa un’esaltazione, un’ubriacatura generale […] dappertutto non fanno che parlare, parlare e parlare. […] tale sovrabbondanza verbale, tale logorrea oratoria è favorita dalla lingua russa, da quel fraseggiare ampio, disteso, sconfinato come la terra russa”.
Il terzo giorno di viaggio salgono sul treno alcuni giovanissimi soldati russi. Sono ragazzi diciottenni che stanno facendo il canonico anno di leva obbligatoria. In mezzo a loro io, la bizzarra italianka, sono una nota fuori dal coro e infatti tempo cinque minuti e mi sono tutti addosso. Di dove sono? Parlo russo? Che ci faccio in viaggio in Siberia? Viaggio da sola, veramente? E mi sommergono di foto. Tutti vogliono un selfie ricordo con questo essere esotico che viene dalla lontanissima Roma. Questa giovane “armata russa” non viaggia da sola: è accompagnata da un sottufficiale biondissimo che ai miei occhi pare più o meno coetaneo dei ragazzi di cui è responsabile. Parlando con loro scopro che la leva in Russia è obbligatoria. Ogni ragazzo al compimento del diciottesimo anno deve prestare un anno nell’esercito. A loro è andata bene, mi racconta Sergej, l’unico che parla una qualche parola di inglese, fino al 2008 gli anni di leva erano due. Mi sorride e mi offre una mela.
Il giorno seguente l’armata russa scende a Krasnoyarsk e salgono nuovi compagni di viaggio. Tra le nuove arrivate ci sono sei ragazze, ballerine di danza contemporanea. Una di loro è specializzata in hip pop. Mi fanno vedere i video sul cellulare e, anche se non capisco nulla di danza, mi sembrano veramente brave.
Mi raccontano che sono in viaggio per Ekaterinburg dove hanno un appuntamento al consolato statunitense per ritirare il visto per andare in California dove parteciperanno a un famosa competizione di danza. Sono un po’ preoccupate, mi dice Ekaterina, una di loro. Il visto per gli USA non è mera burocrazia per i cittadini russi: le ragazze dovranno prima sottoporsi a un colloquio con il console. Quelle tra loro che non sono sposate sono le più ansiose perché il governo statunitense non vede di buon occhio le russe nubili; il luogo comune vuole che le ragazze dell’Est europeo abbiano il fine di adescare un qualche americano per sposarlo ed ottenere così la cittadinanza statunitense.
Qualche centinaio di chilometri dopo Novosibirsk, la capitale della Siberia occidentale, arriviamo alla stazione di Barabinsk. I passeggeri prima di allontanarsi dal vagone consultano la tabella affissa alla porta dello scompartimento delle provodnitse, su cui sono riportati con precisione svizzera i tempi di sosta ad ogni stazione. In questo modo chi vuole scendere a comprare qualcosa da mangiare, o anche solo a sgranchirsi le gambe o a fumare, sa per quanto tempo il treno sarà fermo prima di ripartire.
Ekaterina mi invita a scendere con le sue amiche, mi vuole mostrare i venditori ambulanti di pesce semi secco affumicato che attendono i passeggeri sulla banchina. A quanto pare questo pesce è una specialità del posto molto richiesta data la foga con cui tutti si precipitano a comprare questa leccornia. Passeggiamo su e giù per la piattaforma a osservare i nostri compagni di viaggio scegliere con cura la loro cena, e un mercante di colbacchi impellicciati tenta inutilmente di convincermi a fare un affare acquistandone uno.
Arriva il momento di risalire a bordo e, tutti soddisfatti dei propri acquisti gastronomici, rientrano in treno. Nel vagone aleggia ora un’aria irrespirabile: un miscuglio di pesce affumicato e odore di chiuso unito a quello di circa una ventina di persone che non di fanno la doccia da giorni. Poco male, alla fine ci si fa l’abitudine, e poi il pesce è buono. Me lo fa assaggiare la signora bionda del posto 22, diretta a Mosca a trovare i nipotini. Una donna sulla cinquantina originaria di Norilsk, una cittadina siberiana molto a nord, dove le estati durano un mese e gli inverni, infiniti, registrano una temperatura che si aggira sui -35. Ekaterina mi traduce i racconti della signora che, mentre con le mani fa a pezzetti il pesce, si diverte a vedere la mia faccia incredula. Ai suoi occhi io, la turista italianka, sono un essere che viene dai tropici.
© 2017, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com