Devo ammettere che il primo impatto con l’Armenia mi ha spiazzata.
Me la immaginavo spirituale, mistica e romantica. Invece mi sono trovata in un paese povero e imbruttito dalla sgraziata eredità architettonica sovietica che è riuscita ad appiattire la meravigliosa architettura armena fino a farla diventare ormai uno sbiadito ricordo. Solo in seguito, percorrendo antichi sentieri della via della seta, esplorando magnifiche gole rocciose e contemplando decadenti monasteri nascosti tra le montagne, sono riuscita a riconciliarmi con questo paese malinconico.
Atterro a Zvartnots, il minuscolo aeroporto di Yerevan, in piena notte: i voli da e per l’Europa occidentale sono tutti notturni e il mio non fa eccezione. Ad attendermi c’è Krikor, un corpulento signore di mezza età, dalla barba grigia e gli occhi tristi, che mi farà da guida nel mio breve viaggio in Armenia. A dispetto dell’aria severa, Krikor si dimostra molto gentile ed accogliente, subito pieno di premure. Imparerò presto che dietro l’aspetto severo e malconcio delle città si nascondono delle persone cordiali sinceramente felici di accogliere i forestieri. Lo spirito armeno dell’ospitalità è autentico, non ancora inquinato dalle fredde leggi del turismo di massa.
Per me è il primo viaggio in una ex repubblica sovietica e nonostante la spinta modernizzatrice le tracce del passato sovietico sono ancora visibili. Spesso come ferite male cicatrizzate.
Yerevan è una capitale spoglia, di una bellezza discreta, gloriosa e dimessa al tempo stesso. Orgogliosa, ma anche timida, sembra quasi si sforzi di apparire più maestosa di quello che in realtà è. Un po’ ci riesce, ma basta girare l’angolo per respirare la polvere dei cantieri che provano a tirarla a lucido.
Il parco dell’Opera con i suoi cafè all’aperto e l’atmosfera rilassata è un posto grazioso in cui trascorrere un pomeriggio, ma con una breve passeggiata si possono vedere alcuni smunti condomini sovietici di tufo rosa. L’emblema di questa dualità è il complesso Cascade, uno dei simboli della capitale, monumento di epiche proporzioni costruito nel 1970 per celebrare i 50 anni del Soviet. Si tratta di una grandiosa scalinata in pietra bianca che partendo dal centro città si arrampica su una collina da cui si vede tutta Yerevan. Guardandola dal basso la struttura dà l’idea di trovarsi di fronte a una larga cascata che scende dolcemente verso la città. Da qui il nome “Cascade”.
Man mano che si sale ci si può soffermare ad ammirare le grandi statue che decorano ogni piano del complesso. Moderne sculture e fontane spente si succedono lungo la salita facendo della Cascade una sorta di galleria d’arte a cielo aperto. Ma lo spettacolo di maestosità viene bruscamente interrotto verso la cima, quando il monumento diventa cantiere: la Cascade è incompiuta e i lavori sono fermi. La prima parte fu portata a termine nel 1980, dopodiché l’opera fu lasciata a sé e solo nel 2002 Gerald Cafesjan, industriale newyorkése di origine armena, contribuì finanziariamente per far riprendere i lavori. Oggi però la municipalità di Yerevan non ha i fondi per completare il monumento.
Dalla Cascade si raggiunge il parco Haghtanak (Parco della Vittoria), che ospita un piccolo luna park composto da alcuni malandati giochi. I ciuffi d’erba che bucano i sentieri asfaltati, i marciapiedi rotti e i prati dall’aria abbandonata che circondano le poche giostre arrugginite dànno al parco un sapore di disinvolta trascuratezza che ricorda i parchi di Bucarest in cui mi portavano i miei nonni da piccola. Quell’atmosfera tra l’affranto e il dignitoso che commuove a suscita tenerezza.
All’estremità orientale del parco, su un massiccio piedistallo di basalto dove fino al 1967 troneggiava la statua di Stalin, si erge ora Madre Armenia: l’imponente monumento di 22 metri che guarda in direzione del monte Ararat. E mentre nella piazza antistante i bimbi si arrampicano giocosi sui carri armati e i jet di epoca sovietica, Madre Armenia con la spada e i suoi severi occhi da amazzone, sorveglia dall’alto Yerevan ai suoi piedi.
Passeggiando nel centro storico della città mi imbatto spesso in cantieri e lotti di terra abbandonati: polverosi buchi tra un palazzo e un altro dove prima sorgevano vecchi condomini. Il paesaggio urbano di Yerevan è punteggiato da gru che sovrastano scheletri di cemento e acciaio.
Krikor mi spiega che è una tendenza sempre più comune negli ultimi anni quella di abbattere vecchi edifici e costruirne di nuovi. Centri commerciali e appartamenti di lusso che rimangono poi disabitati perché solo in pochi possono permettersi di acquistarli.
“La mia famiglia abitava dove adesso sorge questo palazzo” mi spiega indicandomi un moderno edificio al cui piano terra fanno bella mostra le vetrine illuminate di un grande negozio di abiti griffati. “Quando il governo decise di abbatterlo ci offrì un risarcimento misero. Molti condòmini si rifiutarono di lasciare il proprio appartamento perché con quel denaro non avrebbero potuto comprarsi casa se non fuori città. Alla fine furono fatti sgomberare con la forza”. Krikor è stato fortunato ed è riuscito a rimanere in centro, ma non è stato così per tutti.
Il giorno seguente partiamo di buon ora verso Khor Virap, uno dei monasteri più famosi d’Armenia.
Il cielo è coperto da azzurre coltri di nubi e minaccia pioggia. Già so che non riuscirò a vedere il monte Ararat che si erge alle spalle del complesso monastico. Il paesaggio, nonostante ciò, è da cartolina. Il monastero è cinto da mura e arroccato su una collina come una fortezza medievale; l’Ararat, la montagna biblica, si staglia imponente sullo sfondo con le sue nevi perenni e una distesa di ordinati filari di vitigni solcano la terra.
Khor Virap è un posto emblematico, non solo perché questo è il luogo della lunga di prigionia di San Gregorio Illuminatore, il santo che portò il cristianesimo in terra armena, ma anche perché sorge a pochissimi chilometri dal confine turco, chiuso dal 1993 e circondato da fili spinati e da torrette di guardia.
Si tratta di una zona politicamente calda e l’Ararat, il monte dell’arca sacro agli armeni, sembra sia lì a ricordarlo. Così vicino ma anche così lontano, per la popolazione armena è un altro prigioniero, un’icona della travagliata storia di questa gente, a cui numerosi poeti hanno dedicato struggenti versi di nostalgia e rimpianto.
Fu Lenin a “regalare” l’Ararat alla Turchia. La politica bolscevica verso l’Armenia era volta ad assicurarsi l’aiuto dei musulmani contro l’imperialismo britannico. Il trattato di Kars del 1921 poi, tagliando definitivamente fuori dal territorio armeno la capitale medievale di Ani e il monte Ararat, lasciò ad Ataturk l’Armenia occidentale. L’Unione Sovietica si accontentò della parte orientale, quel fazzoletto di terra che oggi è la Repubblica di Armenia.
Khor Virap in armeno significa “pozzo profondo”. Infatti sarebbe proprio in questo complesso monastico che il re Tiridate III, accanito persecutore del cristianesimo, rinchiuse San Gregorio.
Ancora oggi, chi non soffre di claustrofobia può calarsi nel pozzo, luogo della prigionia del santo. “Vuole la leggenda che San Gregorio riuscì a sopravvivere grazie alla compassione di una donna che di nascosto gli forniva il cibo attraverso una fessura nel muro del pozzo” mi spiega Krikor scendendo la ripida scala di ferro per accedere alla cappella. “Un giorno però, il re si ammalò di una strana malattia che nessuno riusciva a guarire. Sua sorella ebbe un sogno nel quale le fu rivelato che l’unico a poter guarire il fratello era il prigioniero del pozzo. San Gregorio guarì il re e fu liberato”.
In quello stesso anno, nel 301 d.C., Tiridate III si convertì e dichiarò il cristianesimo religione di stato. Questo fa dell’Armenia il primo paese al mondo ad adottare ufficialmente la religione cristiana. Ancora oggi la chiesa ortodossa armena, che ha un suo “Vaticano” nella città di Echmiadzin, è un elemento fondamentale nella vita di tutti gli armeni. “Il cristianesimo è un’identità per noi: rappresenta un forte legame per la nostra gente”.
Quando ci avviciniamo alla chiesa, Krikor mi fa notare alcune lettere incise nella pietra rossa delle pareti esterne. “In questo monastero si sono rifugiati gli armeni che scappavano dal genocidio del 1915. Questi sono i messaggi e i nomi che le persone affidavano ai muri della chiesa nella speranza di lasciare un indizio alle persone amate”.
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