Angkor, lo splendore Khmer assediato dal turismo di massa

È mattino, poco dopo il sorgere del sole e io pedalo su una strada malamente asfaltata, ammantata dalla giungla.

La luce dorata dell’alba filtra polverosa tra i rami fitti degli alberi secolari e cade sulla rossa terra cambogiana. Tutto attorno quiete: solo il canto esotico degli uccelli tropicali celati tra le foglie infrange il silenzio. Ho deciso di visitare l’enorme complesso archeologico di Angkor in bicicletta, un mezzo che mi è sembrato più adatto per godere appieno l’aura mistica di questo luogo dal fascino inquietante.

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Angkor fu la capitale dell’impero khmer sorto intorno al IX secolo dopo Cristo nel Kambuja, la terra della stirpe di Kambu l’asceta, l’odierna Cambogia. Il nome “Angkor” deriva dal sanscrito nagara e vuol dire per l’appunto “capitale”. Oggi di quella gloriosa città rimangono solo i monumentali templi; degli edifici civili invece, costruiti in materiali deperibili in quanto abitazioni di comuni mortali, non vi è traccia: sono tutti stati divorati dal tempo. Quello che si vede oggi è dunque un enorme città fatta di templi di pietra, anneriti dalle intemperie e circondati dalla foresta.

Il periodo angkoriano inizia nell’802 con il governo di Jayavarman II il fondatore dell’impero, che sulla montagna sacra di Phnom Kulen inaugurò lo shivaismo devaraja, il culto del Dio-re, secondo cui il sovrano è la rappresentazione terrena del dio Shiva ed esercita il potere per mandato divino. Il periodo di gloria architettonica inizia però solo con Indravarman, il primo dei grandi sovrani costruttori. Lo scavo del lago Indratataka, portato a termine dal suo successore Yasovarman, dà il via al sistema dei baray, che caratterizza Angkor, i bacini artificiali d’acqua che servivano per sopperire ai bisogni idrici della città, ma anche come emblema dell’oceano primigenio.

Il complesso templare di Angkor infatti è la rappresentazione in terra della dimora delle divinità hindu. Ogni tempio è carico di simbolismo e scene tratte dalle epopee induiste del Ramayana e del Mahabharata. DSC_0190pI bassorilievi che arricchiscono le costruzioni raffigurano episodi tratti dai testi sacri e personaggi mitologici, come le sensuali apsara dal sorriso ambiguo, danzanti ninfe celesti, motivo decorativo introdotto proprio dai khmer che per primi presero a scolpirle sulle pareti dei templi. I santuari sono poggiati su piattaforme e si elevano verso cielo sormontati da guglie, i prasat, che riproducono la montagna cosmica, dimora degli dèi e centro dell’universo. Queste torri, riccamente scolpite con bassorilievi e nicchie ghirlandate da fiamme, si sviluppano su falsi piani e finiscono con motivi decorativi a forma di fiore di loto, simbolo di purezza.

Ad Angkor gli elementi architettonici non sono mai casuali. Le balaustre serpentiformi raffigurano il naga, serpente policefalo della mitologia hindu che simboleggia il ponte tra terra e cielo. E la balaustra che delimita i ponti d’accesso al complesso dell’Angkor Thom è la rappresentazione della “zangolatura dell’oceano”, episodio mitologico narrato nel Mahabharata. Il serpente che funge da parapetto è retto da un ingegnoso sistema composto da possenti statue raffiguranti i giganti dell’oceano di latte, ognuno scolpito con una faccia diversa, nell’atto di tirare il corpo del cobra. Il mito è ambientato in un epoca di scontri tra deva, gli dèi, e asura, gli antidèi.

Secondo la leggenda, per vincere la battaglia tra dèi e antidèi, Vishnu suggerì alle divinità uno stratagemma per procurarsi l’amrita, un nettare in grado di rendere immortale chi lo avesse bevuto. DSC_0015pMa poiché l’ambrosia si trovava negli abissi dell’oceano di latte, gli dèi ebbero bisogno dell’aiuto dei loro nemici, strinsero dunque una subdola alleanza con gli asura promettendo loro una parte del nettare. Per estrarre l’amrita si servirono di Vasuki il serpente che fu arrotolato attorno alla montagna cosmica; dopodiché, deva da una parte e asura dall’altra, afferrarono il lungo corpo dell’animale e cominciarono a tirarlo facendo ruotare il monte in modo da frullare l’oceano di latte ed estrarre l’ambrosia. Ottenuta l’amrita, gli dèi riuscirono con furbizia ad ingannare i demoni e a bere tutto il nettare diventando invincibili e sconfiggendo una volta per tutte gli antidèi.

Altro mirabile esempio di simbolismo è il Bayon, tempio attorno al quale fu costruita Angkor Thom (letteralmente la “grande capitale”). L’edificio fu voluto dal sovrano buddista Jayavarnam VII che nel 1181 riconquistò Angkor caduta in mano ai cham e sostituì lo shivaismo monarchico con il buddismo di stampo mahayana, identificandosi in Avalokiteshvara, il bodhisattva della compassione.

Il Bayon, con i suoi 216 volti estatici di Avalokiteshvara scolpiti sulle torri, è ricco di simboli mutuati dalla cosmografia hindu. In quanto rappresentazione del sacro monte Meru, la montagna protagonista del mito dell’estrazione dell’amrita, questo tempio vuole essere la metafora dell’indistruttibilità di Angkor Thom.

Jayavarman VII era infatti ossessionato dall’idea di invincibilità: reduce da una guerra contro i cham, popolo che aveva osato saccheggiare Angkor la città simbolo del potere del sovrano, sentiva il bisogno di riconsolidare l’autorità dell’impero.

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Angkor cadde definitivamente nel 1431 per mano dei thai e fu lentamente sepolta dalla giungla circostante. L’Angkor Wat (il più famoso tempio del sito) però, fu trasformato in un monastero buddista e continuò ad essere frequentato.

L’antica capitale sebbene visitata sporadicamente anche da stranieri nel corso dei secoli, tornò alla ribalta solo in seguito alla pubblicazione nel 1868 di “Voyage à Siam et dans le Cambodge” di Henri Mohout, che si era recato in Indocina per una spedizione finanziata dalla Royal Geographic Society. Il libro riscosse un immediato successo e alimentò l’immaginazione di avventurieri romantici e studiosi che arrivarono ad Angkor per studiarla e contemplarne l’estatica bellezza.

I templi sono oggi restaurati con il contributo di alcuni paesi stranieri, tra cui Stati Uniti e Giappone, e liberati dalla vegetazione che aveva preso possesso degli edifici corrodendoli anno dopo anno.

Ma c’è un tempio volutamente lasciato nelle grinfie della natura e solo parzialmente ristrutturato grazie alla partecipazione del governo indiano: il Ta Prohm.

Qua la giungla mangia ancora la pietra dei templi e gli altissimi alberi di ficus avvolgono con le loro tentacolari radici le costruzioni distruggendole poco alla volta in un groviglio di rami e liane.

Al Ta Prohm, immersi nel silenzio mattutino, si rivive la poetica suggestione dei templi assediati dalla foresta, quel profondo sentimento di decadente gloria che dovevano aver provato i primi esploratori di fronte alle rovine di Angkor. Almeno se lo si visita il mattino presto, quando le folle di visitatori dei tour organizzati sono ancora impegnate altrove, a immortalare la gotica silhouette dell’Ankgor Wat che si specchia nel bacino nordoccidentale alle luci dell’alba.DSC_0249p

Se un tempo i templi erano assediati dalla giungla, oggi sono assediati dai turisti. Quello turistico, con una crescita media annua del 14%, è uno dei settori trainanti dell’economia del paese. Secondo il Ministero del Turismo cambogiano l’afflusso di visitatori stranieri è quasi raddoppiato in cinque anni andando dai 2.508.289 di ingressi nel 2010 ai 4.775.231 del 2015.

Angkor è un arricchimento emozionale e culturale per chiunque la visiti, e l’incremento di turisti genera posti di lavoro in uno dei paesi più poveri al mondo (la Cambogia è tredicesima in Asia per grado di povertà). Tuttavia il massiccio afflusso turistico è la causa di recenti problemi di conservazione.

Negli ultimi tempi l’Apsara authority, l’ente che si occupa della protezione e della gestione del patrimonio culturale di Angkor, ha preso alcuni provvedimenti per salvaguardare il sito archeologico. Si è reso necessario porre un limite massimo di 300 visitatori per volta sul Phnom Bakheng, il santuario piramidale dal quale si vede il tramonto sull’Angkor Wat.

Sono stati intensificati i controlli per scoraggiare i turisti poco rispettosi che si arrampicano su balaustre ed edifici e alcuni camminamenti sono stati ricoperti da passerelle di legno per preservare i pavimenti in pietra dai flussi interminabili di visitatori che li percorrono.

Le masse di vacanzieri dei viaggi organizzati sono poi un ulteriore fattore a sfavore del turismo: i grandi gruppi chiassosi di persone preoccupate unicamente a farsi selfie da postare sui social network, distruggono l’aura di spiritualità che permea Angkor. Coprono con il loro vociare senza ritegno i rumori della giungla circostante e offuscano lo splendore architettonico dei templi.

Su questo tema profetiche furono le parole di Tiziano Terzani quando nel 1993 scriveva: “Angkor, a causa della, o forse bisogna dire, grazie alla guerra che per decenni ha travolto l’intera Indocina nella miseria, non è ancora sul cammino delle orde barbariche dei turisti; è ancora intatta, indisturbata, verginale, l’ultima forse fra le grandi meraviglie del mondo”.

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