“A Yerevan ogni 24 aprile piove” mi fa notare Krikor mentre saliamo a piedi la collina dello Tsitsernakaberd, il monumento in ricordo delle vittime dei massacri del 1915.
Anche quest’anno, nel centesimo anniversario del genocidio, la pioggia non ha risparmiato la città. Fin dal mio arrivo la capitale è invasa di adesivi del non ti scordar di me. Questi fiorellini viola campeggiano sui cartelloni, sono sulle vetrine dei negozi, su tutte le automobili, gli uomini ne portano le spille sul petto e le donne sfoggiano foulard dai mille non ti scordar di me. È il fiore simbolo della commemorazione del genocidio e, come ogni cosa in questa terra mistica, anch’esso è carico di valori simbolici: i cinque petali rappresentano i cinque continenti in cui si sono diffusi gli armeni della diaspora dopo il 1915.
Arrivati in cima alla collina che ospita il monumento, vedo un lungo cordone umano di uomini in camicia, donne con in mano bianchi garofani e bambini allegri, che avanza ordinatamente lungo l’ampio viale dello Tsitsernakaberd. Ognuno di loro porta in mano un fiore e lo depone con silente compostezza sulla corona fiorita che cinge la fiamma perpetua. È come se l’intera città fosse accorsa ad un maestoso e sobrio funerale in questo luogo che, vuoto nei giorni feriali, è oggi gremito da un’enorme folla, giunta alle porte di Yerevan per ricordare il centesimo anniversario dal genocidio armeno, che qui chiamano Medz Yeghern, “il grande male”.
Il 24 aprile, giorno della commemorazione del genocidio, è in realtà una data simbolica che richiama i fatti della notte del 24 aprile 1915, quando a Istanbul il governo turco presieduto dal ministro dell’interno Talat Pasa, ordinò l’arresto e l’uccisione di alcune personalità di spicco dell’intellighenzia armena.
Da alcuni riconosciuta come l’inizio delle azioni genocidarie, questa data è in realtà oggetto di dibattito tra le correnti della moderna storiografia del genocidio. Alcuni storici infatti lo fanno iniziare anni addietro, con le stragi del 1895-96 sotto il sultano Abdul Hamid II, quando un piccolo gruppo di armeni, con la speranza di attirare l’attenzione delle grandi potenze europee sulla questione dell’indipendenza armena, occupò la sede di Istanbul della Banca Ottomana prendendo in ostaggio i funzionari.
I responsabili furono catturati e nelle settimane seguenti nella città bande armate di turchi trucidarono intere famiglie armene nelle loro stesse case. L’odio si diffuse e il massacro dilagò nelle province dell’Anatolia dove furono uccisi circa 300.000 armeni. In Armenia il 24 aprile 1915 viene oggi riconosciuto come data dell’inizio del genocidio in quanto il punto di partenza di una rapida sequenza di eventi che fanno pensare ad una politica di pulizia etnica decisa dall’alto e che portò alla morte di un milione e mezzo di persone.
Questa però è la versione armena della storia, perché i turchi non vogliono neanche sentir nominare la parola “genocidio”. Il loro punto di vista è tutt’altro. Gli armeni, dicono, sono solo una parte delle vittime degli eventi legati alla Prima guerra mondiale, durante la quale morirono anche i turchi.
Quando chiedo a Krikor perché la Turchia si ostina a negare il genocidio a un secolo di distanza, lui liquida la questione dicendo che i turchi non sanno far altro che distruggere. Infastidita da una risposta così offensiva e superficiale, insisto e riesco ad ottenere una spiegazione più razionale. Mi spiega che in quegli anni, gli ottomani confiscarono le ricchezze e i patrimoni degli armeni deportati. “Gli armeni erano benestanti, molti di loro veramente ricchi. Oggi, se la Turchia riconoscesse di essere l’artefice del genocidio dovrebbe risarcire i parenti delle vittime e avrebbe dovuto condannare i criminali di guerra responsabili dei massacri”.
Gli armeni erano invisi ai turchi non solo in quanto considerati un corpo estraneo di etnia, lingua e religione, ma anche perché rappresentavano una fetta della popolazione benestante con una forte coscienza della propria identità. Furono per questo considerati ribelli e sospettati di collaborazionismo con i russi, ostili all’Impero ottomano durante la Prima guerra mondiale, quindi bollati come nemici interni. Effettivamente alcuni elementi simpatizzanti con il blocco russo c’erano; in fin dei conti essere una minoranza sotto gli ottomani non era mai stato molto vantaggioso per nessuno.
In Turchia parlare di genocidio armeno o curdo è considerato vilipendio dell’identità nazionale, un reato punibile in base all’articolo 301 del codice penale. Ad averne fatto le spese tra giornalisti e intellettuali turchi figurano Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006, (autore de “Il mio nome è rosso”, pubblicato nel 1998) e la scrittrice Elif Shafak (il suo libro “La bastarda di Istanbul”, uscito nel 2006, riscosse un grande successo).
Quindi nessuna sorpresa quando lo scorso 12 aprile papa Francesco fece indignare gli esponenti del governo turco definendo “genocidio” il massacro della comunità armena nel 1915 (il Vaticano con papa Giovanni Paolo II riconobbe il genocidio armeno nel 2001).
Meno prevedibile invece è stata la risposta turca alla commemorazione del genocidio a Yerevan. Non solo Erdogan non ha accolto l’invito del presidente armeno Sarksyan di prendere parte alla ricorrenza del centenario, ma per distogliere l’attenzione mondiale sull’Armenia, ha posticipato la celebrazione della campagna di Gallipoli, durante la quale nel 1915 la Triplice Intesa cercò invano di conquistare Istanbul, per farla coincidere con la commemorazione del genocidio.
Normalmente questa cerimonia si tiene a marzo dal momento che la flotta anglo-francese fu costretta a ritirarsi il 18 marzo in seguito a gravi perdite. L’Armenia, invitata in Turchia alla celebrazione, non l’ha presa bene e lo ha considerato un affronto: un beffardo rifiuto da parte del governo turco a fare i conti con la propria storia.
In questo modo gli stati di quasi tutto il mondo, invitati per lo stesso giorno sia in Turchia sia in Armenia, si sono trovati di fronte ad una scelta: andare a Yerevan, riconoscendo implicitamente il genocidio o recarsi a Chanakkalle snobbando l’invito di Sarksyan. Solo i capi di stato di Francia, Russia, Cipro e Serbia hanno preso parte alle celebrazioni in Armenia. Vladimir Putin, che prima dell’abbattimento dell’aereo russo da parte dell’aeronautica turca, era in buoni rapporti anche con la Turchia, si è recato a Yerevan (la Russia riconobbe ufficialmente il genocidio armeno nel 1995), ed ha inviato una delegazione alla celebrazione della campagna di Gallipoli.
Il primo paese a riconoscere il genocidio armeno fu l’Uruguay nel 1965. Seguito poco a poco da altri 22 paesi tra cui Francia, Germania, Italia, Svizzera e Canada.
Usa è seconda solo a quella della Russia – evitano di prendere posizione. Il 4 marzo del 2010 la Commissione Affari Esteri Usa della Camera dei Rappresentanti approvò una mozione sul genocidio armeno per il rotto della cuffia: solo 23 voti a favore e 22 contro; ma il documento non ha carattere vincolante. E Barack Obama lo scorso aprile si è guardato bene dal pronunciare quella parola, “genocidio”, che tanto dà fastidio alla Turchia, definendolo più vagamente un “terribile massacro”, venendo così meno all’impegno preso in campagna elettorale nel 2008 di riconoscere il genocidio armeno.
La Francia è invece molto più avanti sulla questione. Non solo riconobbe nel 2001 il Medz Yeghern con un’apposita legge, ma provò ad introdurre sanzioni per i negazionisti del genocidio armeno. La proposta però fu bocciata il 28 febbraio 2012 dal Consiglio Costituzionale francese che la bollò come “una minaccia incostituzionale all’esercizio della libertà di espressione e di comunicazione”.
Ma tra tutte le nazioni quello di Israele è forse il punto di vista più interessante. Guardando alla storia degli ebrei, in particolare alla Seconda guerra mondiale e quindi agli eventi che portarono alla nascita dello stato di Israele, ci si aspetterebbe un riconoscimento immediato, se non automatico, del genocidio armeno.
Invece, per evitare di incrinare i rapporti con la Turchia, nessun governo israeliano si è mai schierato dalla parte degli armeni. La posizione ufficiale di Israele emerse nel novembre 2001 durante un’intervista del Turkish Daily News all’allora Ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres. Questi sminuì il genocidio armeno sostenendo: “Non si è verificato nulla di simile all’Olocausto. Si tratta di una tragedia quello che gli armeni hanno attraversato, ma non un genocidio”. E definendo “priva di senso” la rivendicazione armena di parlare di genocidio, dimenticò che questo termine fu coniato da Raphael Lemkin, ebreo polacco, proprio in riferimento ai massacri del 1915 contro il popolo armeno.
Dopo un bel po’ di fila, riusciamo infine ad entrare nel Museo del Genocidio, rinnovato ed ampliato in occasione del centenario. Salendo delle scale vedo scritta su un muro la celebre frase di Hitler sul massacro del 1915. Nel 1939 durante il discorso in cui il Fuhrer comunicò l’intenzione di invadere la Polonia, molti si preoccuparono delle ripercussioni future che un’invasione così brutale poteva scatenare. Per tranquillizzare anche gli ultimi perplessi Hitler rispose: “Chi mai si ricorda oggi del massacro degli armeni?”
È il mio ultimo giorno in Armenia. Dal momento che il mio volo per Vienna parte di notte, Krikor si è offerto gentilmente di ospitarmi in casa sua prima di accompagnarmi all’aeroporto. Entriamo in un grigio condominio dal sapore sovietico. Krikor mi fa strada. Il portone d’ingresso è spalancato, ormai rotto da anni, nessuno si preoccupa più di riparlo. I muri, di un vago color ocra, sono scrostati e perdono pezzi di intonaco. Entriamo nell’ascensore – abita al sesto piano – stretto e dalle pareti tappezzate di pubblicità. “È una novità degli ultimi anni” mi spiega “una volta non c’erano poster pubblicitari nei condomini”. La moglie di Krikor ci accoglie con un largo sorriso sulla soglia di casa. È una bella donna, ha dei ricci capelli corvini che le incorniciano il viso solare. Mi fa accomodare e mi offre del tè accompagnato da frutta secca. Si presenta: si chiama Anoush, (come la protagonista dell’opera di Hovhannes Tumanyan, il più grande scrittore armeno, mi spiega) ed è una cantante di lirica. Si scusa subito del suo italiano, che è invece ottimo, dicendomi che non ha modo di praticarlo, ma che è una lingua che adora, così come l’Italia dove si reca spesso per lavoro. Mi fa tante domande, mi è piaciuta l’Armenia? Cosa ne penso? Il cibo? I paesaggi? Rimane sveglia fino a tardi insieme a Krikor per intrattenermi. È felice di avere un ospite e non fa che riempirmi il piattino con dolci di ogni tipo e parlare del suo amore per l’Italia. Ma alla fine arriva il momento di andare, la ringrazio e parto con Krikor verso l’aeroporto.
Fuori fa freddo e l’aria frizzante mi pizzica la pelle mentre raggiungo l’automobile. Dal finestrino osservo la città che scorre via dai miei occhi. Man mano che ci allontaniamo le luci diminuiscono fino a sparire quasi completamente. Nel cielo nero, pulito dagli ultimi giorni di pioggia, brilla qualche timida stella.
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