La fabbrica chimica dell’Unione Sovietica

“Siamo arrivati in Bangladesh” esordisce Krikor quando in macchina arriviamo poco fuori la capitale.

Lo guardo interrogativa e lui mi sorride misterioso mentre continua a guidare. Osservo la città dal finestrino e non capisco: stiamo attraversando la periferia di Yerevan, un susseguirsi di alti condomini sovietici. Di bengalese non mi sembra ci sia nulla. Glielo faccio notare e lui allora mi racconta un simpatico aneddoto.

Questi palazzi furono costruiti dallo stato durante la nuova pianificazione della città in epoca sovietica per trasferire parte della popolazione che abitava in centro. Oggi questi quartieri non sembrano lontani dalla capitale, ma negli anni Settanta erano percepiti come irraggiungibili, una manciata di case nuove in mezzo al nulla. “Un signore che abitava nel centro di Yerevan, quando fu trasferito in questa nuova periferia, si lamentò con il governo e, esasperato dall’indifferenza dei quadri locali, finì con l’inviare una lettera di lamentele a Mosca. Diceva che non era giusto che l’avessero trasferito in Bangladesh! Talmente gli sembrava un posto lontano, che lo aveva chiamato proprio così: Bangladesh.

Quando a Mosca lessero la lettera, si dice che uno dei dirigenti che si occupava di urbanistica, commentò: ‘Almeno date a questo povero uomo una casa all’interno dell’Unione Sovietica!’ Da quel momento è rimasto questo modo di chiamare la periferia di Yerevan, Bangladesh”. Abitarci non è particolarmente comodo neanche oggi, mi spiega, i collegamenti pubblici sono scarsi e il modo più comodo per spostarsi rimane l’automobile, ma anche così bisogna fare i conti con il traffico.

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Poco più lontano, il paesaggio cambia.

Ora non si vedono più i grigi palazzoni di periferia, ma una piatta distesa di erba gialla incrostata da vecchie fabbriche arrugginite. Per qualche chilometro da entrambi i lati della strada questi monumenti di archeologia industriale stanno lì a ricordare un glorioso passato. Sono le fabbriche chimiche dell’Unione Sovietica, oggi in disuso, totalmente abbandonate all’incuria del tempo e alle intemperie.

L’economia dell’Urss era divisa in compartimenti stagni: ogni repubblica doveva produrre un determinato prodotto, imposto dall’alto, dopodiché il sistema di importazione ed esportazione interno all’Unione garantiva ad ogni Soviet tutto ciò di cui aveva bisogno. DSC_009L’Uzbekistan produceva solo cotone, il Kazakistan serviva come luogo per gli esperimenti nucleari e pattumiera delle scorie, l’Azerbaigian forniva petrolio e così via. In questa rigida pianificazione economica l’Armenia era l’industria chimica dell’Urss.

Con la caduta dell’Unione Sovietica però questo sistema crollò creando una serie di problemi di carattere socioeconomico. Le varie repubbliche, che prima erano interdipendenti, ora non hanno un’economia complessa e mancano di quel minimo di autarchia necessaria. Sanno produrre quasi solo i prodotti che l’Urss aveva imposto loro e si trovano costretti a importare tutto il resto. Per paesi come l’Armenia e la Georgia, la situazione è più grave perché a differenza del vicino Azerbaigian, ricco di petrolio, non possono contare su risorse minerarie consistenti.

Con il tempo le fabbriche chimiche sono andate deteriorandosi. I finanziamenti per mantenerle hanno cominciato a scarseggiare così come la produttività. Oggi di quell’industria che dava lavoro a gran parte della popolazione armena e che riforniva una delle più grandi potenze mondiali, non rimangono che scheletri dimenticati nella sterpaglia.

“Queste strutture sono a un tale livello di abbandono che costerebbe troppo anche ristrutturarle. Non conviene farci nulla. Meglio lasciarle così” mi spiega con rammarico Krikor che è un nostalgico dell’Unione Sovietica. Anche chi si lamentava del regime, oggi ammette che si sta peggio. “Abbiamo barattato la sicurezza che avevamo sotto l’Unione Sovietica per una libertà fasulla. Non siamo più liberi di prima, una volta avevamo il regime, ora le leggi del mercato libero che ci schiavizzano e ci impoveriscono. Dietro la facciata di libertà si nasconde un sistema economico famelico”.

È un discorso che ho sentito spesso anche nei miei viaggi in Romania. Le generazioni che hanno vissuto sotto Ceausescu spesso sottolineano che sotto il regime c’era più sicurezza, tutti avevano il necessario: un posto di lavoro, una casa, un’ottima istruzione e i beni primari non mancavano. Oggi per avere tutto, dicono, non riescono ad ottenere nulla.

Per noi occidentali sono discorsi difficili da digerire. Non ci crediamo, non vogliamo credere che una dittatura sia meglio di una democrazia traballante. Ci spertichiamo in lodi per il sistema democratico che, continuiamo a sostenere, nonostante tutti i difetti è il migliore che esista e pensiamo che sia meglio una vita piena di incertezze, ma libera. Per quelli che la pensano come Krikor invece si stava meglio quando si stava peggio.

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