Oggi si celebra la giornata mondiale della Terra, ma i ghiacci si sciolgono a un ritmo allarmante e le priorità ambientali continuano ad essere subordinate alle politiche dell’economia capitalista.
Anche questa volta ha vinto l’astensionismo. La scorsa domenica gli italiani sono stati chiamati alle urne per scegliere se abrogare o meno la norma, presente nella legge di stabilità del 1 gennaio 2016, che estende la durata delle concessioni fino all’esaurimento del giacimento. Se avesse vinto il “sì” le trivelle avrebbero continuato a lavorare per qualche anno ancora (alcune fino al 2034) e poi sarebbero state smantellate. Avendo vinto l’astensionismo, le piattaforme offshore potranno continuare ad estrarre per tutta la durata di vita del giacimento.
Ciò che conta, però, non è tanto l’esito del referendum del 17 aprile, sebbene la durata delle concessioni non sia poi una questione così irrilevante, come alcuni pensano. Ciò che conta è il quesito che ci si pone. Spesso le domande sono più importanti delle risposte e una domanda intelligente indica che si è realmente capito il problema. I promotori del “no” hanno spostato l’attenzione sui vantaggi economici, mostrando un approccio miope alla questione dell’impatto ambientale. Chi sosteneva il “sì” ha giustamente posto il problema oltre il quesito del referendum, attribuendo al proprio voto un valore simbolico più che tecnico: chi vuole limitare la durata delle concessioni chiede un ripensamento globale e più maturo dello sfruttamento energetico. C’è poi una terza categoria; la categoria di quelli che si sono accaniti sulla strumentalizzazione politica della votazione. Chiarito il fatto che i referendum, per loro natura, si limitano a chiedere l’abrogazione di alcuni punti relativi a certe leggi e non, a proporre politiche articolate, i due diversi approcci alla questione “trivelle” mostrano che la spaccatura tra politiche ambientaliste e politiche economiche continua ad essere forte.
Il problema è che ancora ci chiediamo come sfruttare i combustibili fossili e non come sostituirli.
Oggi, 22 aprile, è la giornata mondiale della Terra. La data fu riconosciuta ufficialmente nel 1969 dopo che il disastro ambientale al largo delle coste di Santa Barbara riaccese i dibattiti sulle ripercussioni che il nostro sistema economico ha sulla Terra. Quell’anno, un pozzo della Union Oil perse petrolio che si diffuse disastrosamente nel mare. Il 22 aprile del 1970 milioni di manifestanti invasero le strade per chiedere una maggiore attenzione alla salute della Terra.
A quarant’anni da quella storica manifestazione, a che punto siamo? Siamo ancora alla ricerca di combustibile fossile da bruciare. Siamo ancora sostenitori, di fatto, di un sistema capitalistico sfrenato, incentrato unicamente sulla crescita economica. Invece di avviare in maniera concreta una politica più attenta alla sostenibilità ambientale, siamo ancora lì a porci domande sciocche.
Nonostante gli allarmi lanciati più volte dai climatologi, la tendenza mondiale è chiara: continuare sulla strada dello sfruttamento intensivo degli idrocarburi. Se il 17 aprile, a Doha, i maggiori produttori di greggio si sono riuniti per tentare di abbassare la produzione, è stato solo per rilanciare le quotazioni del barile, non certo in favore dell’ecologismo.
Il governo statunitense ha di recente proposto tre nuove concessioni petrolifere offshore in Alaska, nonostante nel 2014 fossero state revocate a causa dei possibili rischi ecologici in un sistema delicato come quello del mar glaciale Artico. L’inversione di rotta non stupisce, i giacimenti petroliferi vanno verso l’esaurimento e le multinazionali del petrolio si sono premurate spingendosi fino all’Artico per trovare nuove terre di estrazione dei combustibili fossili. Si stima che l’Artico nasconda il 22% di giacimenti di petrolio non ancora sfruttati di tutto il mondo, motivo per cui queste gelide lande, a primo impatto prive di interesse, sono invece contese dai grandi della Terra. Tanto che, nel 2007, la Russia, per rivendicare il controllo del Polo Nord, ha piantato la propria bandiera nel fondale marino. Ogni stato può sfruttare in esclusiva le risorse del mare solo fino a 200 miglia nautiche; allargare i propri confini verso nord quindi, dà maggiore possibilità di accaparrarsi le risorse delle terre artiche. Non è un caso se negli ultimi anni le elezioni politiche in Groenlandia vertono sempre più sulla possibilità di sfruttamento delle risorse del sottosuolo dell’isola. Quelle del 2013 videro lo “scontro” elettorale dell’uscente premier Kuupik Kleist, favorevole alle attività di estrazione, e l’opposizione guidata da Aleqa Hammond, contraria allo sviluppo selvaggio.
Mai come ora è fondamentale cambiare politiche ambientali. È ormai noto, grazie ai rapporti dell’IPCC (International Panel on Climate Change), che il riscaldamento è stato l’effetto delle attività umane sul clima negli ultimi tre secoli. Inoltre, secondo uno studio del 2015 condotto da James Hansen, climatologo ed ex scienziato della Nasa, in collaborazione con altri 16 studiosi, la situazione è molto più grave di quello che si pensa. I risultati della ricerca, usciti recentemente su Atmospheric Chemistry and Physics, affermano che limitare l’aumento della temperatura atmosferica a due gradi rispetto ai livelli preindustriali, obiettivo posto nell’Accordo di Copenaghen del 2009 e ribadito alla Conferenza ONU sul clima tenutasi a Parigi lo scorso dicembre, non è sufficiente. Lo scioglimento dei ghiacci, dovuto alle emissioni dei gas serra, sta aumentando in maniera preoccupante e, secondo Rob De Conto, dell’università del Massachusetts, pur restando sotto i due gradi, il livello dei mari si alzerà di almeno un metro nei prossimi 80 anni. “Il messaggio che la scienza del clima offre ai politici, invece di definire un ‘guardrail’, è che le emissioni di CO2 da combustibili fossili devono essere ridotte in modo pragmatico al più presto” scrive Hansen nel suo rapporto, concludendo con il consiglio di passare immediatamente alle energie rinnovabili.
Solo in Europa, nell’ultimo secolo, la temperatura è aumentata in media di 1,4°C. L’estate del 2013 è stata la più calda della storia contemporanea e ha causato un aumento della mortalità degli anziani dovuta a malattie respiratorie, ictus ed infarti causati dall’eccessivo caldo.
Hansen propone di sostituire gli idrocarburi con risorse rinnovabili, obiettivo oggi più semplice degli anni passati. Dal 2009, infatti, il costo della produzione di energia da pannelli solari è scesa del 61%, mentre quella derivante dalle pale eoliche del 14% e in Italia le fonti rinnovabili coprono ormai il 40% dei consumi elettrici. Ma il passaggio a un’ “energia pulita” basta? Se si vuole mantenere l’attuale sistema economico che punta sulla crescita infinita, la risposta è “no”. La vera rivoluzione non sarebbe tanto quella dell’uso di energie rinnovabili, quanto l’abbandono di un’economia, che ormai regna sovrana, indifferente a tutto ciò che non sia il profitto.
Vandana Shiva, scienziata e attivista indiana, lo spiega bene nel suo libro “Soil, Not Oil. Environmental justice in a time of climate crisis” (uscito nel 2008, edito da Fazi Editore e tradotto in italiano “Ritorno alla terra”). Vandana si premura, tra le altre cose, di chiarire che la politica delle “energie pulite” non può essere calcolata solo in base alle emissioni di CO2, ma deve tenere conto di tutti i rischi ecologici e alimentari dall’inizio alla fine del percorso. Inoltre, essendo una fisica, pone sulla bilancia anche il differenziale tra l’energia utilizzata e quella prodotta, spiegando come spesso, alcune fonti alternative utilizzino più energia di quanta ne producano, rendendo così inutile il loro uso.

La proposta di Vandana Shiva, in finale, è “la transizione da un’economia globalizzata fondata sul combustibile fossile a una rete di economie locali fondate sull’energia rinnovabile e resistenti ai mutamenti climatici”. Chiama questo passaggio “transizione culturale” perché implica un ripensamento dei nostri stili di vita e l’abbandono dell’economia del consumismo e di un modello tecnologico che vede la natura esclusivamente come una macchina e non come un sistema vivente. Sotto questa prospettiva vanno rivisti anche i negoziati sui cambiamenti climatici che fino ad ora si sono limitati a un modello energetico di tipo commerciale finalizzato al consumo, che non tiene realmente conto dell’impatto ambientale.
“La terra, non il petrolio, ci offre la possibilità di convertire la catastrofe ecologica nell’opportunità di recuperare il nostro futuro” scrive Vandana Shiva a conclusione dell’introduzione del suo libro. Forse questo messaggio non verrà mai recepito o, semplicemente ci vorrà molto tempo.
Ma intanto la febbre del mondo sale.
© 2016, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com