Lungo la strada di ritorno dalla località montana di Dilijan, una sorta di piccola Svizzera, zona di villeggiatura frequentata da turisti francesi e russi, la pioggia si trasforma lentamente in neve ricoprendo poco a poco il paesaggio montano di un candido manto bianco.
Mentre attraversiamo la galleria tra Sevan e Dilijan, Krikor mi spiega che il tunnel e la strada sono stati realizzati grazie ai finanziamenti di Kirk Kerkorian, il magnate americano di origine armena, proprietario della Metro Goldwyn Mayer e padre dei megaresort di Las Vegas. Durante la mia permanenza in Armenia sentirò spesso parlare di ricchi emigrati armeni, che dopo aver fatto fortuna altrove, per lo più negli Stati Uniti, Canada e Russia, fanno generose donazioni per la costruzione di infrastrutture nel proprio paese di origine.
L’Armenia non è un paese prospero.
Il 40% della popolazione vive in povertà e la disoccupazione galoppante spinge la gente ad emigrare all’estero, tanto che il paese registra ogni anno un’allarmante tendenza allo spopolamento. Le fabbriche chimiche, che durante l’epoca sovietica erano il settore trainante dell’economia, cadono oggi a pezzi e giacciono irrecuperabili ai bordi delle strade.
Risorse naturali non ce ne sono: il gas viene dalla Russia passando per la Georgia e il petrolio si trova solo nel vicino Azerbaigian. I problemi diplomatici con i paesi confinanti poi, non fanno che peggiorare la già precaria situazione economica del paese.
Situata in un crocevia strategico tra Asia ed Europa, l’Armenia potrebbe essere uno dei paesi più influenti nella regione, se non fosse per i confini chiusi: a est con l’Azerbaigian, a causa delle controversie di guerra nella regione contesa del Nagorno Karabakh, e a ovest con la Turchia per il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Le uniche vie di accesso via terra rimangono la Georgia a nord e l’Iran a sud. Inoltre il paese non ha sbocchi sui due grandi mari della regione: il mar Nero bagna la Georgia e il mar Caspio l’Azerbaigian.
In questo contesto l’unica speranza per l’Armenia sembrano essere i suoi emigrati, i tanti armeni che vivono e lavorano all’estero e mandano regolarmente denaro in patria, mantenendo o comunque aiutando famiglie e parenti. Altre donazioni vengono dai milionari e filantropi armeni che pur risiedendo altrove continuano ad investire nel paese d’origine. Laddove lo stato non arriva, arrivano loro.
Kirk Kerkorian è stato uno di questi. Attraverso la Lincy Foundation, da lui istituita nel 1989 per venire in aiuto a coloro che avevano perso la casa nel terremoto di Spitak del 1988, donò all’Armenia 240 milioni di dollari per costruire strade, scavare gallerie sotto le montagne, edificare strutture ospedaliere ed educative.
Un altro generoso magnate è il banchiere Ruben Vardanian, fino al 2011 presidente della banca russa di investimenti Troika Dialog. La sua fondazione, IDeA Foundation, si pone come obiettivo quello di supportare l’Armenia nel passaggio da un’economia di sussistenza a un’economia prospera. Tra i suoi progetti rientrano lo United Wold College Dilijan, inaugurato l’11 ottobre 2014, e il “Revival of Tatev”, un programma di valorizzazione dell’omonimo monastero nel sud del paese, che ha portato nel 2010 alla costruzione della funivia più lunga al mondo, la “Wings of Tatev”. Grazie anche a questa cabinovia, che permette di raggiungere agevolmente il convento di Tatev, nella provincia di Syunik il turismo è incrementato notevolmente.
All’armeno-canadese Dikran Hadjetian invece si deve la ricostruzione del Noravank, il bellissimo monastero danneggiato dal terremoto del 1840. Oltre che in infrastrutture di utilità pubblica, c’è anche chi investe in fabbriche e turismo, come il designer James Tufekian, proprietario di quattro bellissimi alberghi di alta categoria, e la famiglia Megerian di New York che ha risollevato il centro di produzione di tappeti di Yerevan.
“Un impiegato statale guadagna l’equivalente di 150 euro al mese. Le pensioni sono basse e il lavoro scarseggia. Io ho due figli, i miei genitori vivono con 80 euro al mese…e tutti guardano me” mi confida la mia guida, ex cantante di opera lirica, che non è emigrato e oggi si guadagna da vivere con il turismo.
Ma anche questo settore nell’ultimo anno è in calo. “Ancora riesco a lavorare con qualche gruppo di italiani, ma sono sempre di meno. Penso che comincerò a orientarmi verso i russi”. Intanto attraversiamo alcuni piccoli villaggi vicino al lago Sevan, dove il modo più economico per riscaldare le case è lo sterco degli animali che viene prima fatto seccare e poi bruciato. In queste lande d’inverno le temperature possono raggiungere anche i 20 gradi sotto lo zero: il riscaldamento è un problema cruciale. Il gas che scalda le case armene e fa correre le automobili – il 32% dei veicoli armeni è alimentato a gas naturale – viene dalla Russia, vicino amico con il quale l’attuale governo filorusso di Serz Sargsyan si impegna a intrattenere ottimi rapporti.
Nel Caucaso dal gigante russo ci può essere molto da guadagnare e l’Armenia, isolata politicamente da due paesi confinanti, lo sa bene. La Georgia, al contrario, ha alcune ferite aperte con la Russia che, dopo aver appoggiato i ribelli dell’Abkhasia e dell’Ossezia del Sud, ha riconosciuto le due regioni indipendentiste il 26 agosto del 2008. La Georgia, da parte sua, accusa la Federazione russa di occupazione del suolo georgiano: i due paesi sono ai ferri corti. Su questo filo spinato di complicate relazioni diplomatiche si muovono diverse dinamiche ed interessi. L’Abkhasia, ad esempio, ha intenzione di riaprire la ferrovia di Sukhumi, chiusa dal 1992, che collega la Russia a Yerevan via Tbilisi. Per l’Armenia, che attualmente è sprovvista di una buona rete ferroviaria, sarebbe la soluzione a molti problemi di carattere logistico, ma la Georgia non ne vuole sapere.
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