Il grande mistero della Russia è il suo popolo.
I russi a primo impatto sono indecifrabili. Appaiono chiusi, arrabbiati, schivi, ma se si ha il coraggio di penetrare quella cortina di apparente diffidenza, si scoprono persone curiose e generose. L’immagine distorta che ci siamo costruiti di questo popolo deriva in parte dal lavaggio del cervello della Hollywood pre-1992, che per anni non ci ha dato tregua nel propinarci film in cui i russi venivano dipinti come mostri senza riscatto, personaggi negativi fino al midollo, il male per antonomasia. Bisogna però riconoscere che anche i russi ci mettono del loro. Tanto per iniziare dispensano raramente sorrisi.
Durante il mio lungo viaggio dal Baltico al Pacifico ho riflettuto spesso su questo popolo complesso nell’intento di carpire la misteriosa anima russa. Una risposta me la dà Nikolaj Berdjaev, esponente dell’esistenzialismo cristiano morto in esilio in Francia, dove scappò a causa del suo dissenso con i bolscevichi. Secondo il filosofo di Kiev i russi sono un popolo forgiato dalla propria terra. Abitanti di un paese sconfinato e rude allo stesso tempo del quale sono prigionieri, si trovano costretti a impiegare una quantità incommensurabile di energia per sopravvivere a queste lande inospitali dal clima spietatamente continentale.
La tesi di Berdjaev sul popolo russo potrebbe essere riassunta in una magistrale frase chekhoviana: “La piana sconfinata, il clima rigido, la gente grigia, arcigna con la sua storia fredda e dolorosa […] la vita russa schiaccia l’uomo finché di lui non rimane neppure una chiazza di umidità”. La terra, che in termini storici e sociologici si tramuta nell’entità dello Stato, opprime e schiavizza i russi nell’intento di mantenere in piedi una così enorme nazione.
“La Russia è una grandezza talmente schiacciante da mozzare il fiato” scriveva il reporter polacco Ryszard Kapuscinski. Effettivamente tutto in questa nazione è grande; la Russia non è un paese, bensì un continente e, percorrendola interamente in treno ci si rende conto della sua incredibile vastità: da Mosca a Vladivostok sono sette giorni di viaggio. La stessa capitale, nelle cui ampie strade si respira ancora quel senso di glorioso impero, è un mostro tentacolare in continua espansione che fiacca l’esistenza dei suoi cittadini. Solo una parte irrisoria di Russia è abitata e abitabile, il resto è taiga, deserto, permafrost. Questa incommensurabilità si riflette inevitabilmente sulla mentalità dei russi che infatti sono soliti fare le cose in grande e per farlo devono spendere un’incredibile quantità di energia umana e non solo.
“Noi russi siamo affetti dalla mania di grandezza – mi spiega scherzando, ma neanche troppo, Maria, la mia amica moscovita – pensiamo a produrre solo cose grandiose: l’importante è che siano impressionanti e poco importa se poi non sono funzionali. La filosofia è ‘avosh proneset‘, che significa ‘forse sarò fortunato’…magari funziona”.
Senza dover percorrere tutto il paese, due esempi di “megalomania russa” si possono osservare entro le mura del Cremlino. La mastodontica campana di 202 tonnellate (la più grande al mondo), detta la Zarina delle campane, e l’altrettanto enorme Zar dei cannoni, (del diametro di 89 centimetri) non furono mai usati perché troppo grandi. Sono, in effettivamente, inutilizzabili.
Poi, c’è tutto quell’immenso, proprio come la Russia, capitolo letterario rappresentato dai grandi autori i cui scritti sono intrisi dell’animo russo. Nella profondità esistenziale di Dostoevskij, Chekhov, Pushkin, Tolstoj, sebbene sotto differenti sensibilità, palpita l’anima di questo grande popolo; un’anima che viene scandagliata, rigirata, esposta e messa alla prova. È spesso l’anima degli antieroi: i protagonisti dei romanzi russi non sono belli e positivi come quelli della letteratura occidentale, cresciuta con gli insegnamenti culturali dell’Antica Grecia, ma decadenti, perdenti e pessimisti. Quale miglior modo per esplorare lo spirito di questo paese se non immergendosi in una poesia o un romanzo russo? La stessa Virginia Woolf, scrittrice e critica letteraria, disse che il vero protagonista della grande letteratura russa è l’anima dei suoi personaggi.

Un altro spunto di riflessione lo trovo durante una serata passata a chiacchierare e sorseggiare tè verde a casa della mia amica Maria. “Siamo una società da sindrome post-traumatica” mi dice. “Il nostro è un popolo generoso, ma durante gli anni del regime ci hanno obbligato ad andare contro la nostra natura. La gente arrivò a ignorare le persone bisognose perché erano quelle invise allo Stato; e se le aiutavi eri loro complice e ti veniva riservata la loro stessa crudele sorte”. Tutto quello che i russi hanno dovuto sopportare: la repressione, la propaganda, le file per il pane, la paura di proferire quella parola di troppo che ti spediva in un gulag da un giorno a un altro e il crollo inaspettato dell’Impero sovietico, ha finito per plasmarli.
Uno dei recenti grandi traumi del popolo russo fu la Seconda Guerra Mondiale. Se i Giapponesi la chiamano “Guerra del Pacifico” perché la combatterono per lo più nel sud-est asiatico, i russi, che la vissero in pieno socialismo staliniano, la ribattezzarono la “Grande Guerra Patriottica”. Durante quegli anni il bilancio delle perdite ammonta a 27 milioni di persone. La Seconda Guerra Mondiale ha mietuto più vittime in Russia che altrove. “Ogni famiglia ebbe almeno un morto a causa della guerra” mi fa notare Maria mentre ci fermiamo sotto le alte mura del Cremlino ad osservare la fiamma che brucia perpetua in onore del milite ignoto, sorvegliata da altere guardie immobili.
Aver vinto la Grande Guerra è forse il più grande merito del governo di Stalin; probabilmente anche uno dei motivi per il quale il baffuto georgiano è stato negli anni il protagonista di un processo di rivalutazione. I russi, con le truppe hitleriane sul suolo sovietico, fecero appello alla vecchia strategia della terra bruciata. “Squadra che vince non si cambia” avrà pensato Stalin che ordinò di dare in pasto al fuoco tutto ciò che non poteva essere portato via. A rimetterci non furono solo i soldati tedeschi, ma anche la popolazione russa che si trovò a patire la fame, dal momento che le poche risorse disponibili venivano destinate alla denutrita Armata Rossa. “Tutto per il fronte, tutto per la vittoria” erano le parole d’ordine.
Sembra che i gulag, le volubili persecuzioni staliniane, le perdite della seconda guerra mondiale diano ragione a quella che il saggista russo Mikhajlovskij definisce “L’inesausta aspirazione dei russi alla sofferenza”. Ma i russi sono in realtà di persone gioiose pronte a fare festa in qualsiasi occasione, calde e dall’amaro senso dell’umorismo. Tutte caratteristiche che rendono questo popolo straordinario dall’animo romantico, estremamente complesso e interessante.
“Quando mi chiedono cosa cerco in Russia, visto che appena posso corro a San Pietroburgo, io rispondo: ‘vado a trovare la grande anima russa’” mi dice Anton, un ragazzo estone, armeno da parte di madre, che oggi vive a Helsinki. Anton ha 31 anni, ha trascorso l’infanzia nella Tallin sovietica, parla fluentemente il russo, lingua che adora, e sta valutando la possibilità di trasferirsi nella Siberia occidentale.
“Eri solo un bambino quando l’Urss crollò. Come puoi definirti un nostalgico dell’Unione Sovietica?” gli chiedo quando mi confida che era più felice sotto il regime.
“I migliori ricordi che ho appartengono a quegli anni” mi risponde secco.
Gli faccio allora notare che i russi non ne vogliono sapere dell’Urss. Rinnegano quegli anni di sobrietà e rigore. “L’Estonia però era diversa: eravamo la ‘Svizzera’ dell’Unione Sovietica. Non si stava male come invece lamentano molti estoni”.
Al di là dei punti di vista, sembrerebbe che Anton non sia l’unico a rimpiangere l’Urss. Uzbechi, kazachi, armeni, kirghisi che ho incontrato sul treno si dicono tutti tristi di non far più parte della stessa grande federazione e vengono in Russia per cercare lavoro come manovali perché nei propri paesi di origine la disoccupazione è alle stelle.
Per alcuni di loro la Russia è rimasto il centro del grande impero. Di tutti i cittadini delle ex repubbliche sovietiche con i quali ho conversato durante il mio viaggio, gli unici che ho sentito parlare con fastidio dell’Urss sono i lituani, che provano un profondo astio nei confronti dei russi. A Vilnius gli anni sovietici sono ricordati in quello che viene chiamato il Museo del Genocidio. È così, senza mezze misure, che i lituani interpretano gli anni dell’occupazione sovietica del 1940: non “occupazione”, ma “genocidio”. Il rapporto tra Lituania e Russia fu particolarmente conflittuale all’epoca, tanto che i bolscevichi imposero il russo come unica lingua. I lituani, in tutta risposta, misero in piedi una rete clandestina di distribuzione di testi scritti in lituano che i trafficanti di libri andavano a stampare all’estero rischiando, se scoperti, il gulag.
Su una cosa però concordo con Anton. La parte più affascinante e intensa della Russia, non sono i paesaggi, sebbene aspri e poetici al tempo stesso, non l’arte, se anche meravigliosa ed elegante, ma la sua gente. I russi, se si ha la pazienza di andare oltre le apparenze, sono il grande tesoro di questa sconfinata terra.
È arrivato il momento di abbandonare la capitale e dirigersi in direzione est, destinazione Irkutsk, la capitale della Siberia orientale. L’arrivo è previsto tra 5185 chilometri, che tradotto in tempo sono 86 ore, che tradotte in giornate sono tre giorni e mezzo. Il mio biglietto per la Siberia si chiama platzkart, vagone 3, posto numero 11, che in soldoni vuol dire che viaggio in terza classe.
Appena metto piede nella dimora dei miei prossimi quattro giorni, capisco perché tutti i russi cui dicevo che avrei viaggiato così mi davano della pazza. Niente docce, niente scompartimenti. Un unico grande corridoio-dormitorio con letti a castello ai lati in cui si sta tutti insieme (circa una cinquantina di persone) nella buona e nella cattiva sorte. La mia “sorte” sono una signora a modo, mezzo ipocondriaca, che prima di toccare qualsiasi cosa la pulisce a fondo con fazzoletti impregnati di disinfettante, e un signore dall’aria annoiata. Il treno parte e, come se fossero sincronizzati, cominciano tutti a tirare fuori cibarie di ogni tipo: iniziato il viaggio, si mangia.
La signora, che sfoggia dei capelli biondo canarino e labbra fucsia in pendant con lo smalto, prepara con meticolosa cura il suo angolo di tavolo, tira fuori cetrioli sottaceto, kolbasa e uova sode che ricopre con una quantità spropositata di maionese spremuta da un tubo. Il pranzo al sacco del signore prevede invece un piatto a base di pollo che lui comincia a divorare facendo ogni tipo di strani versi; spolpa gli ossicini succhiandoli rumorosamente per poggiarli sbadatamente su un fazzoletto, con grande disappunto dell’ipocondriaca che lo guarda in cagnesco.
© 2017, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com
Bel reportage dove hai intrecciato storia,geografia ,politica impressioni proprie con grande maestria
Sempre più brava.