Trekking sulle Alpi Tonchinesi, storia di un turismo responsabile che funziona

L’autobus se ne sta parcheggiato come un ingombrante pachiderma in un ampio spiazzo vuoto avvolto da una pesante bruma. È appena l’alba e dentro il pullman tutti i passeggeri ancora dormono. Fuori, giovani ragazze vestite in abiti colorati spuntano, una ad una, come fantasmi dalla nebbia e si avvicinano caute e silenziose. Alcune appoggiano il volto sui finestrini per scrutare dentro. Altre ancora allungano il collo per vedere meglio all’interno con il palmo della mano all’altezza degli occhi per eliminare il riflesso del vetro. Il calore del loro respiro lascia degli aloni sui finestrini appannati. Poi si ritirano in attesa che i forestieri, ovvero noi turisti, escano dalla vettura.

Va avanti così per un po’ fino a quando l’autista, un vietnamita scuro dalla faccia butterata, ci sveglia. Siamo arrivati a Sapa, ci fa sapere sbrigativamente, è ora di scendere. Ci alziamo e lentamente prendiamo le nostre cose con il sonno negli occhi. Scendiamo e mentre aspettiamo in fila di ritirare i nostri zaini, le ragazze si avvicinano. Sono di etnia H’mong, una delle minoranze etniche di questa regione nel nord del Vietnam.

“Ciao, come va? Hai prenotato un tour?” chiedono in inglese. A tutti spetta la stessa domanda.

Se ho prenotato un tour? No.

“Io mi chiamo Sun, sono di qui e faccio la guida. Posso essere la tua guida se vuoi”.

Così che ebbe inizio la mia esperienza di tre giorni tra le Alpi Tonchinesi negli sperduti villaggi dei H’mong neri.

DSC_1230p

Sun è una piccoletta che mi arriva a malapena alle spalle, ma cammina con un passo così energico che faccio fatica a starle dietro. Mentre mi accompagna verso l’agenzia per la quale lavora parla senza sosta e mi sommerge di domande. Passiamo per stradine, percorrendo pittoreschi saliscendi di scale in cui donne delle tribù di montagna se ne stanno sedute sui gradini con i propri manufatti di artigianato locale, sperando di venderli a qualche turista. Arriviamo infine in una casa in legno non lontano dalla piazza centrale dove una ragazza australiana mi offre una tazza di tè caldo. Si chiama Elizabeth ed è qui, in questa lontana regione al confine con la Cina, come volontaria per insegnare inglese ai bambini delle tribù di montagna. Parliamo un po’ del programma di volontariato, del territorio e Sun mi dà alcune informazioni pratiche sull’itinerario dei prossimi giorni. Farà freddo, troveremo parecchio fango, dormiremo in spartane case locali e ci inerpicheremo per risaie e monti umidi con una media di 6 chilometri al giorno. Il trekking insomma, si rivelerà tosto.

Partiamo in giornata attraversando un paio di villaggi animati da colorati mercati locali prima di entrare in vallate deserte. Lungo la strada Sun incontra delle donne dall’età indefinibile. Sono vestite negli abiti locali con casacche nere dalle maniche ricamate a motivi geometrici. Ai lobi pendono massicci orecchini circolari, sulle spalle trasportano grandi cesti di paglia fittamente intrecciata che hanno l’aria di essere piuttosto pesanti mentre sulla testa sfoggiano fazzoletti rosa acceso dalle linee colorate. Strada facendo le donne si uniscono a noi fino a formare una piccola carovana.

img_1241p

Man mano che ci allontaniamo da Sapa la nebbia si infittisce e poco a poco ci addentriamo in un’umida foresta di bambù. Le silhouette delle alte canne pendono disordinatamente con le foglie aguzze sopra il sentiero fangoso sul quale procedo con piede malfermo rischiando di scivolare ad ogni passo. Sun invece procede lesta nei suoi stivali di gomma, come se nulla fosse e mi racconta della sua famiglia. Abita in un minuscolo villaggio a un giorno di cammino dal capoluogo della provincia, dove vive con il marito e i due figli di quattro e sei anni. Mi sembra giovane per avere un figlio così grande, così le chiedo l’età. Ha solo 26 anni. “I H’mong neri si sposano in giovane età” mi spiega, “di norma si prende marito a 16 anni, ma ora il governo impone che si raggiunga almeno la maggiore età”. Parlando di matrimonio e della cultura della tribù alla quale appartiene scopro che i H’mong hanno dei rituali di corteggiamento alquanto singolari.

img_1236p

La scelta della sposa avviene ‘per rapimento’: l’uomo rapisce la donna. Per alcuni giorni la famiglia della ragazza ignora dove si trovi la figlia che nel frattempo vive nella casa del futuro sposo, ma senza dormire con lui. Spetta alla donna, una volta tornata a casa, decidere se sposare il ragazzo. Ma è difficile dire di no perché il rifiuto viene interpretato come un atteggiamento di superiorità, la comunità penserà che se non le sta bene il primo ragazzo, farà storie anche per i successivi. Allora non sarà facile per lei trovare marito”.

Alla famiglia del ragazzo spetterà poi il pagamento del matrimonio. “È importante che sia lui a provvedere a queste spese; se succede l’opposto noi diciamo che è la donna ad aver sposato l’uomo e non viceversa”. Dopodiché i coniugi vivono tre anni con la famiglia del marito e quando la ragazza rimane incinta possono costruirsi una casa vicino a quella dei genitori di lui. “I maschi non cambiano villaggio, sono le donne ad allontanarsi dal proprio”.

Il primo giorno di cammino ci vede impegnate su ampie strade di terra chiazzate da torbide pozzanghere dalle quali ogni tanto qualche cane si ferma a bere. Del paesaggio vedo ancora ben poco: sulle valli grava una coltre di nebbia che ricopre i monti.

Poco prima dell’imbrunire ci fermiamo per la notte in una casa nascosta in cima a una collina nei pressi del villaggio di Lao Chai. La proprietaria, Giang, è una signora gentile non molto più alta di Sun che ci prepara una quantità spropositata di cibo. Parla bene inglese, anche lei lavora per i turisti. Ceniamo, giochiamo a carte e beviamo un’acquavite di fabbricazione locale chiamata “l’acqua della felicità”, che mi brucia la gola e scalda l’atmosfera. Il marito di Giang resta sfuggente, non si unisce al tavolo, ha da fare, dice. Noto che a differenza delle donne, gli uomini sono vestiti all’occidentale. “Solo in occasioni speciali indossano abiti tradizionali” mi spiega la padrona di casa tra un bicchiere e un altro.

img_1305pIl mattino seguente il canto dei galli mi sveglia all’alba di una giornata tersa. “Visto? Oggi c’è sole. È perché ieri abbiamo bevuto l’acqua della felicità” mi dice scherzando Sun mentre riprendiamo il cammino. Il percorso si fa presto arduo. Avanziamo lungo il crinale di un’alta montagna dove le foglie di enormi felci nascondono lo stretto sentiero. Tutto intorno non c’è nulla e per ore il silenzio è il nostro unico compagno. Di tanto in tanto Sun raccoglie alcune radici e frutti. Mi spiega cosa è commestibile e cosa non lo è e come mangiarli: è una profonda conoscitrice delle piante spontanee che crescono sul territorio. “Tutti le conoscono” mi risponde facendo spallucce, quando le chiedo come faccia a sapere tutte queste cose sulla vegetazione locale.

img_1315pArriviamo infine in un piccolo villaggio dove ci fermiamo a pranzare. Passando di fronte ad un’abitazione noto una canna a cui è legato un mazzo di foglie. Sun mi spiega che sono state messe lì da uno sciamano a indicare che non bisogna entrare in quella casa. “Probabilmente la famiglia che vi abita ha avuto un presagio. Forse il gallo ha cantato quando era ancora buio: è segno di cattiva sorte” mi spiega Sun “se capita, bisogna chiamare lo sciamano. Invece gli H’mong che si sono convertiti al cristianesimo risolvono il tutto semplicemente uccidendo il gallo” mi dice ridendo.

Prima di arrivare nel minuscolo villaggio in cui passeremo la notte davanti a noi si apre un paesaggio da fiaba. Il cielo si specchia nelle risaie che tagliano le pendici delle colline, mentre le linee dolci dei monti blu sfumano in lontananza.

In quel momento si avvicina una guida H’mong, una giovane ragazza che accompagna dei turisti lungo i percorsi di trekking portando il figlio sulla schiena assicurato da fasce. Parlando con lei, a noi turisti viene spontaneo chiedere come faccia a camminare su questi percorsi con il bimbo sulla schiena.img_1244p La ragazza ride: “Non è un problema” dice. Le montagne sono la sua casa, conosce a menadito tutto il territorio ed è abituata a camminare molto tutti i giorni. “La donna ha il compito di badare alla prole, ma ha anche altre mansioni” ci spiega. “Quindi è fondamentale che possa spostarsi e portare con sé il proprio bambino anche quando svolge altri compiti. Mentre cucina, si occupa degli animali, pulisce e anche quando accompagna i turisti”. Proprio perché servono a trasportare i pargoli, queste fasce non sono oggetti qualunque. Presso i H’mong verdi ad esempio vengono preparate dalle nonne quando le ragazze rimangono incinte e c’è un momento propizio, rivelato dallo sciamano, in cui iniziare a tessere la fascia.

Anche l’indomani mi sveglio al canto del gallo e mi viene spontaneo guardare fuori: è giorno. Menomale! Nessun cattivo auspicio e il gallo è salvo.

Ci incamminiamo di buon ora procedendo sui bordi di acquitrinose risaie terrazzate in cui i bufali se ne stanno placidi a ruminare. Ad ogni passo sprofondo nel pantano del fango giallo. Sun invece, sembra non avere alcun rallentamento, come sempre. Parla e cammina giocherellando con un filo grezzo che le macchia le dita di verde. “Cos’è?” le chiedo incuriosita indicandole la matassa che tiene arrotolata attorno alla mano.

DSC_1265p

“È filo di canapa, il tessuto dei nostri abiti” risponde. “La cultura femminile degli H’mong è incentrata sulla tessitura. Le donne passano gran parte del tempo a preparare i vestiti per la famiglia. Prima del matrimonio la ragazza deve aver preparato un vestito per il futuro marito, altrimenti viene considerata pigra”.

Le qualità sartoriali della donna sono fondamentali. E visto che Sun non passa le sue giornate a casa a tessere, deve sfruttare ogni singolo momento per non restare indietro nella preparazione dei vestiti. Mentre cammina districa il filo di canapa e quando la sera ci fermiamo cuce. Appena può si siede, tira fuori l’occorrente dal suo piccolo borsello di stoffa quadrata e si mette a ricamare. “Al momento sto lavorando a una cinta” mi dice mostrandomi il suo lavoro, una grossa striscia ricamata in nero, verde, rosso e bianco seguendo un pattern di motivi geometrici. “La cinta è un importante elemento dei nostri abiti, per questo è l’unica parte in seta ed è riccamente decorata. Serve a tenere chiusa la casacca che indossiamo”.

DSC_1282pQuando entriamo in una splendida vallata ricoperta di fiori indaco, Sun ne approfitta per darmi qualche informazione sulla tintura delle stoffe H’mong. “Utilizziamo foglie di indaco per il nero e il verde” mi dice raccogliendone uno per farmelo vedere. “Per il giallo usiamo la buccia di mango e per il bianco le fibre di cocco. Mettiamo a bollire le foglie e le scoliamo. Queste rilasciano colore nell’acqua dove immergiamo i fili di canapa che finiranno per impregnarsi di colore”.

Oggi la tessitura è diventata per alcune donne, oltre che un lavoro domestico, anche un guadagno extra: si può vendere ai visitatori che accorrono sempre più numerosi in queste vallate.

L’impatto del crescente turismo della provincia di Sapa è uno degli argomenti che mi interessa approfondire con Sun. Riescono le tribù di montagna a preservare il loro stile di vita e le loro tradizioni in questo contesto?

La mia guida si mostra ottimista. “Sì. Negli ultimi anni si è sviluppato un turismo responsabile e attento”.

img_1285p

Gli H’mong, conoscitori di queste splendide valli, hanno da sempre lavorato nel settore turistico come guide, vendendo artigianato o nei ristoranti locali. Tuttavia la povertà dei villaggi spingeva spesso i bambini a saltare la scuola per dedicarsi a mestieri legati al turismo. La situazione sta cambiando in meglio. Oggi alcune agenzie fondate da appartenenti alla tribù dei H’mong si preoccupano di dare un futuro migliore alle comunità di montagna garantendo stipendi adeguati al lavoro svolto e facendo studiare l’inglese ai bambini. Incoraggiano la pratica dell’ospitalità locale: si dorme e si mangia nelle case delle persone che mettono a disposizione posti letto per i turisti, scoraggiando così la costruzione di mega resort e grandi alberghi che finirebbero per deturpare il paesaggio.

Fare un’esperienza con uno di questi operatori turistici locali è un’ottima occasione per entrare a contatto con queste tribù, dormire nelle loro case e conoscere meglio le loro tradizioni. Si tratta soprattutto di un valido appoggio per far sì che le minoranze etniche abbiano l’opportunità di vivere secondo i propri costumi senza dover fuggire dai villaggi per finire omologati nell’ennesima grande metropoli.

DSC_1285p

Ecco di seguito alcune agenzie turistiche attente al contesto ambientale e sociale della provincia di Sapa. Sicuramente ce ne saranno altre, ma queste sono quelle che io conosco:

  • Sapa O’Chau (sapaochau.org)
  • Sapa Sisters (sapasisters.com) 

© 2017, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com

2 pensieri su “Trekking sulle Alpi Tonchinesi, storia di un turismo responsabile che funziona

  1. Grazie Cristina, che bel reportage! Mi piace leggere dei tuoi viaggi in solitaria, stare dietro le quinte e pensare che magari, chissà, fra qualche tempo inizierò anche io a viaggiare in compagnia di me stessa 🙂

    1. Ciao Mari 🙂
      Mi fa davvero piacere che ti sia piaciuto il reportage.
      Viaggiare in solitaria è un’esperienza che ti consiglio assolutamente di provare. Pensa che io oramai non riesco più a farne a meno…è tutta un’altra cosa! Da soli si impara a vivere il mondo con un’altra prospettiva, si è più aperti al prossimo, si accettano di buon grado gli imprevisti e, non ultimo, rafforza la tempra! 😉
      Magari a breve ci scriverò un articolo 🙂

Di' la tua