L’Harpa Concert Hall, il simbolo di un popolo amante della cultura

La metà degli islandesi legge i libri scritti dall’altra metà” dice un proverbio locale.

Infatti l’Islanda è la patria delle saghe e il luogo che ha la più alta percentuale, in proporzione alla popolazione, di lettori e scrittori. In questo paese di sole 332.000 anime ogni anno vengono venduti circa 400.000 biglietti teatrali.DSC_0319p Insomma, sembrerebbe che la cultura sia per gli islandesi una consolazione, una cara compagna che tiene lontana la solitudine, illumina le lunghe notti invernali e scalda il cuore nelle algide giornate ventose.

Ne sono una dimostrazione l’attiva partecipazione degli islandesi a concerti e conferenze, l’assidua frequentazione di biblioteche, librerie e teatri. Tra l’autunno 2008 e l’inverno 2009, ovvero in piena crisi economica, la principale casa editrice del paese, invece di fallire o veder diminuire vertiginosamente le proprie entrate, raddoppiò il fatturato. Tradotto in altri termini: in un periodo di profonda instabilità finanziaria gli islandesi hanno letto di più. Forse hanno trovato rifugio nella letteratura.

Emblema di questo amore per la cultura è l’Harpa Concert Hall, l’auditorium di Reykjavik. Ogni grande città che si rispetti ne ha ormai uno e anche l’Islanda ha deciso di non essere da meno. Così la capitale islandese ha ceduto alla tentazione di lanciarsi in questa implicita gara architettonica a chi costruisce il più avveniristico auditorium.

L’Harpa è situato sul lato nord della città da cui guarda il mare con le sue diecimila finestre dai riflessi caleidoscopici. È un edificio cristallino, dalla geometrica e precisa spigolosità, un gigante di vetro e acciaio, dinamico nelle facciate composte dalle finestre modulari, che ad ogni riflesso di sole assumono colori diversi l’una dall’altra. Mi siedo all’interno a guardare le barche ormeggiate nel porto sottostante e mi perdo a contemplare la baia attraverso questa grande parete vetriata che sminuzza il paesaggio marino in tante angolose gocce di vetro.

L’auditorium di Reykjavik, con la sua trasparenza e i suoi giochi di luce, vuole essere un tributo alla luce nordica e alla selvaggia natura islandese. Non a caso le sale da concerto portano i nomi dei quattro elementi: Aria, Fuoco, Acqua e Terra. Deve essere suggestivo stare di fronte a questo auditorium nelle buie notti invernali e ammirarlo scintillare nella sua colorata brillantezza, ma io, che ci sono venuta in un momento dell’anno che non conosce buio, devo accontentarmi della meno romantica luce diurna.

Riflettendo sulla recente storia economica dell’Islanda e sulla sua dinamicità culturale, penso che l’auditorium di Reykjavik è in un certo senso la metafora di questo paese. 

L’edificio, progettato nel 2004 e inaugurato solo nel maggio 2011, è innanzitutto un luogo all’altezza della vivacità culturale dell’Islanda (e il fatto che l’isola non avesse un auditorium era un’anomalia), ma è anche il simbolo del superamento della bolla finanziaria che nel 2008 travolse l’isola. Quell’anno la costruzione dell’auditorium, che costò 150 milioni di dollari, subì una battuta d’arresto a causa del tracollo dell’economia islandese, ma grazie alla tenacia e al superamento dell’impasse finanziario, l’edificio fu portato a termine e solo tre anni dopo aprì i battenti al grande pubblico. Di questo coraggioso superamento, definito “la soluzione islandese”, vale la pena spendere qualche parola.

Tutto cominciò qualche anno prima, nel 2003, quando i banchieri privati che avevano ormai acquisito tutti i principali istituti di credito islandese, cominciarono a mettere in moto un pericoloso gioco finanziario creando aziende fittizie nei paradisi fiscali. Dopodiché gonfiarono i propri capitali per ottenere altri soldi da investire, denaro che arrivava dagli investitori esteri (principalmente inglesi e olandesi) attirati dai conti online, gli Icesave, che promettevano altissimi rendimenti.

Quando questa spirale malata esplose nel 2008, l’intero sistema finanziario islandese andò in frantumi. L’allora primo ministro, Geir Haarde, chiese un prestito di 2 miliardi e 100 milioni al Fondo monetario internazionale e impose alla popolazione islandese di saldare il debito. La risposta fu negativa: gli islandesi si ribellarono e assediarono il parlamento asserendo con fermezza che non avrebbero pagato i debiti di nessuno.

Seguirono due anni di esplicite minacce di Gran Bretagna e Olanda durante i quali la popolazione rifiutò qualsiasi compromesso con le èlite finanziarie internazionali. Infine, dopo aver mandato a casa due premier e aver ribadito in un apposito referendum il categorico rifiuto al pagamento del debito, l’economia islandese cominciò lentamente a ricrescere.

L’Islanda riuscì a non pagare i debiti e a mettere sotto processo il premier Haarde per il suo operato ambiguo e tutte le persone coinvolte nello scandalo finanziario. Fu una rivoluzione sconosciuta: il rumore metallico delle pentole e padelle percosse dalla rabbiosa folla reykjavikiana che accerchiava l’Althingishus, il parlamento islandese, le nostre televisioni non ce lo hanno fatto sentire.DSC_0353p

Tanta consapevolezza del proprio ruolo all’interno della società e una tale partecipazione alla vita politica sono sicuramente risultato di una lunga tradizione democratica, risalente al 930 d. C., ma anche l’effetto del sincero amore di questo popolo per la cultura in tutte le sue forme.

Fatta eccezione per l’Harpa Concert Hall e la cattedrale di Hallgrimskirkja, con le sue colonne di basalto che protese verso il cielo la fanno sembrare un imponente organo grigio, Reykjavik manca della maestosità delle altre capitali del continente. È schiva e dimessa, come se fosse rimasta un sonnolento villaggio sulla costa. Qui regna un’atmosfera di essenzialità quasi contadina, una purezza delle forme che non stanca l’occhio.

Le case basse somigliano a graziosi prefabbricati dai tetti coloratissimi: giallo, azzurro, rosso, verde e celeste danno un senso di spensierata allegria. I lati dei palazzi invece sono coperti di murales originali che non sono lo sfogo di una gioventù rabbiosa che si sente inadeguata alla vita, ma hanno piuttosto l’aria di essere dei graffiti commissionati o comunque apprezzati, disegni che danno un tocco di dinamicità alla città.

Passeggiando tra le strade dall’aria informale di questa piccola capitale, gli episodi di cronaca nera dei romanzi del commissario Erlendur Sveinsson, (personaggio dello scrittore islandese Arnaldur Indridason), ambientati proprio qui, sembrano inverosimili. Reykjavik ha l’aria di un paesello dall’anima innocente e non me la immagino proprio teatro di cruenti omicidi.

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Nelle indagini dell’investigatore Sveinsson infatti, la polizia si trova spesso ad indagare su vecchi casi archiviati o su persone scomparse a causa del maltempo piuttosto che su delitti intenzionali. L’abito però non fa il monaco e, per rimanere nel panorama letterario islandese, basta leggere “101 Reykjavik” di Halgrimur Helgason, spaccato dell’esuberante gioventù di Reykjavik, per intuire che dietro tanta tranquillità si cela un’anima cupa e trasgressiva, forgiata da un clima scontroso e dall’isolamento.

Finisco la giornata davanti a cinque assaggi di birre artigianali al Micro Bar, un piccolo locale in pieno centro che promuove i microbirrifici islandesi (motivo per cui questa birreria si chiama “Micro Bar”). La scelta aziendale è coraggiosa e interessante: qua non si viene semplicemente a bere, per quello ci sono tanti altri posti in città, in questo luogo invece si viene per gustare birre rare, ma soprattutto islandesi. Quindi se vi presenterete al bancone chiedendo una comunissima birra commerciale che potreste tranquillamente acquistare in un qualsiasi supermercato nella vostra città, probabilmente non la troverete.

Quella della birra in Islanda è una storia singolare. Dal 1915 fino al recente 1989 infatti era un prodotto proibito. Consumare birra era considerato un costume tipicamente danese e, dal momento che l’Islanda era sotto il dominio del Regno di Danimarca, se ne liberò solo nel 1944, la birra era considerata la bevanda degli usurpatori.

La cosa strana però è che tutti gli altri tipi di liquori erano invece legali. Il governo infatti considerava il basso tasso alcolico della birra un’arma a doppio taglio. Essendo una bevanda molto leggera si rischiava di sottovalutarne la pericolosità: troppo facile alzare il gomito e ritrovarsi ubriachi senza neanche accorgersene. Secondo questo ragionamento dunque la consapevolezza della latente perniciosità dei superalcolici avrebbe dovuto spingere le persone a un consumo più ponderato.

“Fatta la legge, trovato l’inganno”, diremmo noi in Italia. Infatti gli islandesi non si lasciarono scoraggiare e inventarono i “Bjorbollur”, degli originali cocktails prodotti miscelando il bjorliki, una pseudo birra ottenuta dalla vodka, ad altri liquori. Per anni gli islandesi poterono comprare solo birra di contrabbando proveniente dall’estero, ma le cose si fecero più facili con l’arrivo degli americani, che negli anni Cinquanta aprirono una base Nato a Keflavik. Per i militari statunitensi venne riaperto l’Olgerdin Egill Skallagrimsson, il più antico birrificio islandese. La birra lì prodotta era destinata esclusivamente all’esercito americano di stanza nella penisola di Reykjanes, ma non fu poi così difficile per gli abitanti del luogo riuscire ad averla di contrabbando.

Solo nel 1989 il governo rese nuovamente legale l’acquisto e il consumo di birra e il 1 marzo, data che corrisponde al giorno della legalizzazione, è per gli islandesi il “Bjordagur”, la giornata della birra.

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© 2016, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com

2 pensieri su “L’Harpa Concert Hall, il simbolo di un popolo amante della cultura

    1. Ciao Renato! Scusa del super ritardo di questa risposta, ma a giugno ero in transiberiana e a quanto pare solo ultimamente sto acquisendo una reale dimestichezza con la piattaforma! Grazie per il tuo pensiero, mi fa molto piacere sapere che hai apprezzato il taglio che ho dato al reportage.

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