L’Islanda non ha significativi monumenti storici, chi viene qua in vacanza lo fa per ammirare la splendida natura dell’isola.
Ma c’è una costruzione che è stata fondamentale nella storia degli ultimi cinquant’anni del XX secolo di questo paese: la base Nato di Keflavik. In qualche modo questo edificio è un importante monumento storico. Infatti la prolungata presenza statunitense nella penisola di Reykjanes influenzò notevolmente la vita economica, politica e sociale di questa nazione geograficamente così isolata dal resto del mondo.
Tutto iniziò nel 1951 quando, con lo scoppio della guerra contro la Corea, la Nato chiese all’Islanda di accettare sul proprio suolo l’esercito Usa in funzione difensiva. Non era la prima volta che il paese accettava la presenza di un’armata straniera. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’assenza di un esercito islandese che potesse difendere l’isola da un’eventuale occupazione tedesca, spinse la Gran Bretagna ad inviare le proprie truppe in Islanda. L’anno successivo le truppe inglesi si ritirarono e furono sostituite da quelle statunitensi con l’intento iniziale di rimanere fino al termine del conflitto.
Cinque anni dopo gli americani mantennero la promessa e si ritirarono. Ma la guerra in Corea e il crescendo di tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica rimescolarono le carte in tavola e l’esercito americano tornò sull’isola di ghiaccio. L’Islanda, situata in una posizione strategica a metà strada tra il continente euroasiatico e quello americano, divenne così un’importante base di monitoraggio durante la guerra fredda.
La presenza statunitense ebbe degli effetti significativi innanzitutto sul piano politico. L’Islanda godette della protezione americana che le evitò spiacevoli confronti con le altre grandi potenze. Un esempio tra tutti furono gli eventi incruenti delle cod wars, “le guerre del merluzzo”, le uniche guerre che l’Islanda si sia mai trovata a “combattere”. Il nome suona ridicolo, ma questo pacifico litigio tra Islanda e Gran Bretagna fu tutt’altro che secondario per il settore ittico, una delle principali voci nell’economia del paese.
Gli islandesi, circondati da un mare ricchissimo di pesce, non hanno mai apprezzato la presenza dei pescherecci inglesi che già dagli anni Cinquanta stazionavano al largo delle loro coste. Per allontanare gli sgraditi ospiti l’Islanda cominciò così ad allargare gradualmente il limite delle acque territoriali da 3 a 12 miglia. I pescherecci stranieri, sebbene irritati, non si fecero scoraggiare e continuarono a fare incetta di pesce nelle acque artiche attorno all’Islanda, fino a quando la tensione salì, e nel 1975 Reykjavik rispose spostando il limite a 200 miglia. Nel corso delle cod wars il Regno Unito arrivò a boicottare i prodotti ittici islandesi. I britannici vennero però presto sostituiti dall’Unione Sovietica, che in questo settore divenne in breve tempo l’acquirente numero uno dell’Islanda.
A tutt’oggi quello delle acque territoriali è una questione molto sentita nel paese, ed è sicuramente una delle ragioni di tanta diffidenza nei confronti dell’Unione Europea: gli islandesi non vogliono certo vedersi costretti ad accettare scomode norme dettate dall’alto sulle preziosissime acque territoriali.
Grazie alla base Nato l’isola fu travolta da un’ondata di modernizzazione di impronta statunitense. I numerosi matrimoni misti, una rinnovata mentalità in un popolo di pastori e pescatori, e i mutamenti nella vita quotidiana furono tutte conseguenze dell’americanizzazione portata dai militari. Anche ora le grandi automobili che sprecano benzina a sproposito, la malsana tendenza a consumare cibi spazzatura e le stazze di molti abitanti sono alcune delle caratteristiche più evidenti che l’Islanda ha in comune con gli Stati Uniti.
La base, con i suoi cinquemila soldati, significò anche opportunità di lavoro per gli abitanti della zona di Keflavik. La richiesta di manodopera locale crebbe in poco tempo e moltissime persone trovarono impieghi in relazione alla base, che per anni fu per gli abitanti del luogo una sorta di grande azienda estera dispensatrice di lavoro. Insomma l’esercito americano con le sue attività collaterali portò indubbiamente anche ricchezza. La regione infatti conobbe un’esponenziale crescita economica, tanto che quando la base chiuse nel settembre 2006 l’area di Keflavik, un tempo tra le più prospere del paese, venne afflitta da un alto tasso di disoccupazione.
Le mutate condizioni strategico-politiche e le proteste della destra conservatrice da una parte, e della sinistra islandese dall’altra, portarono alla fine di questo lungo periodo di bengodi. Oggi nonostante le varie proposte, il governo non ha ancora deciso come utilizzare la base e questo vuoto scheletro di cemento resta lì in silenziosa attesa del proprio destino.
© 2016, Cristina Cori. All rights reserved. Copyright © CristinaCori.com